di Mylene Fernández Pintado
Marcos y Marcos, 2017
Titolo originale La esquina del mundo
Traduzione di Laura Mariottini e Alessandro Oricchio
221 pp.
16,00 €
La chiave di lettura più utile per addentrarci in questo romanzo della scrittrice cubana Mylene Fernández Pintado è la contrapposizione, mezzo attraverso cui si definisce la struttura narrativa del testo. Contrapposizione tra Cuba e il resto del mondo; tra i cubani che lasciano l'isola e quelli che non lo fanno; tra quelli che non vorrebbero andarsene e invece sono costretti a farlo e quelli che invece desidererebbero partire, ma non possono; tra quelli che ritornano, anche solo per le vacanze, e quelli che non ci mettono più piede. Tra il Malecón, lo struggente lungomare dell'Avana, e ciò che c'è al di là delle onde. Tra la solidità di una vita matura e la spensieratezza e il sogno di una vita giovane, giovanissima. Tra l'amore pacificato per la propria isola, ricca di contraddizioni e difficoltà, e il desiderio di lasciarla per vedere altri Paesi, per trovare il proprio posto nel mondo, ovunque, ma non in quell'«angolo di mondo».
Aiutati da queste antinomie, entriamo nel vivo del romanzo, che, in sintesi, è una storia d'amore, quella tra Marian, 37 anni, docile e tranquilla docente universitaria di letteratura a L'Avana, con una vita posata, piena di abitudini e, in fondo, piacevolmente soddisfacente, e Daniel, 22 anni, aspirante scrittore, testa calda, pieno di sogni sul proprio futuro da romanziere, agitato, passionale, carnale, bugiardo. Un turbine che scuote e scombussola il lento tran tran di Marian. La quale ben presto, dopo un breve periodo di amore e sesso (d'altra parte siamo a Cuba...), di innamoramento, cene romantiche e notti passionali, si ritroverà davanti a un dilemma: rimanere sull'isola, senza Daniel o partire con lui, ma senza Cuba? Il giovane scrittore infatti scalpita, conosce due turiste spagnole a cui si concede, facendo credere a Marian che siano due professoresse, ma che di fatto, comunque, lo invitano a Madrid per provare a vincere una borsa di studio destinata a giovani scrittori. Naturalmente Daniel non sta nella pelle e, vedendo davanti a sé un futuro alla Ernest Hemingway, brama di partire, lasciarsi tutto alle spalle. Tutto tranne Marian, che vorrebbe portare con sé nel Primo Mondo. Perché lui la ama, per davvero. Che cosa farà Marian? Che farà Daniel? Lo scopriremo solo leggendo.
E nel frattempo assaporeremo quell'Avana descritta dalla Pintado, che ha un grandissimo pregio: essersi tolta di dosso gli schemi convenzionali. Pochissime concessioni alla visione turistica di un'isola dedicata a balli, musiche, notti calde e infinite. Oppure a un'isola sfregiata dalla povertà, con i soliti lamenti sul tema. O ancora a un'isola eroica, che marcia sulle note della rivoluzione di Fidel e del Che. Tutti i luoghi comuni che siamo soliti associare alla mitologia della Isla Grande sono assenti o fuggevolmente presenti. La protagonista appartiene a una classe sociale superiore, potremmo dire quasi, se non fosse che parliamo di Cuba e l'aggettivo potrebbe sembrare irriverente, «borghese». L'isola è sì povera, perché anche Marian, che è una docente, si deve accontentare di una vecchia automobile moscovita che fa le bizze e vive in un appartamento non certo lussuoso. Il tutto è però raccontato con molta dignità e semplicità. Una Cuba quindi che non ci si aspetta: dove c'è anche chi ha preso possesso delle ville lasciate dai ricchi rifugiatisi a Miami, al tempo della Revolución, e conduce una vita benestante. Come l'ex suocera di Marian, sempre fresca di parrucchiere e di abiti alla moda. Un'Avana le cui case, sgangherate, sbrindellate, tenute in piedi con sistemi improbabili (gli stessi che consentono alle vecchie automobili americane anni 50 di circolare), si riempiono di diavolerie moderne:
I black out mi divertono, perché a rimanere senza elettricità sono i quartieri alti e le case dove ci sono maxischermi, playstation, lettori DVD, aria condizionata, telefoni senza fili e forni a microonde. Io invece ho a disposizione tanti chilowatt e nessun elettrodomestico con cui consumarli.
Dice Daniel. Mentre l'autrice, con levità, ci spiega come la società cubana piano piano stia cambiando e in che modo lo sta facendo:
La gente portava gioielli, argenteria, suppellettili, quadri e mobili di valore per ottenere in cambio una specie di buono per fare acquisti in determinati negozi che vendevano cose che non avevano niente a che fare con il Socialismo e il suo ostinato rifiuto del comfort. Insieme alle spedizioni che arrivavano da Miami, è stato così che molte case cubane si sono popolate dei risvolti elettrici della vita moderna. E sempre così si sono spogliate dei testimoni muti della vita antica. Le famiglie aprirono cassetti e armadi, e diedero via tutto quello che poteva convertirsi in un videoregistratore o in un televisore a colori.
Miami, un fantasma che ricorre spessissimo nel romanzo. Chi vi è scappato al tempo della Revolución lasciando in tutta fretta case piene di roba («tanto torneremo»), chi continua a scapparvi andando a infoltire abitazioni e locali di quella Calle Ocho, conosciuta come Little Havana (il posto più brutto e desolante che chi scrive ha avuto modo di vedere a Miami), spaccandosi la schiena per pulire le scale dei grattacieli americani in modo da poter inviare soldi ai cugini che, poveretti, sono rimasti a L'Avana. Salvo poi scoprire, durante una breve vacanza, conquistata a fatica dopo anni di lavoro, che lì all'Avana i cugini poveretti, con quei soldi ci campano, senza l'ansia di cercare un impiego a tutti i costi, ma godendosi il sole, il mare, la musica. Tutte quelle cose che, a pulire scale, non si vedono e non si sentono. E che, al momento di ripartire per tornare di là dal mare, qualche dubbio in fondo al cuore lo lasciano.
E quindi che fare? Mollare tutto e ricostruirsi una vita fuori, dall'altra parte del mondo? «Anche se quando io avrò cinquant'anni, tu ne avrai trentacinque?», per tornare a Marian e Daniel. Passeggiare sul Malecón tra il sole dell'Avana, il profumo del mare, ma anche le esalazioni delle case fatiscenti o mettere tutto in un angolo e andare a Madrid? Verso quella madre patria che diede ai cubani il proprio linguaggio e la propria letteratura. E che può consegnare a Daniel lo status di scrittore. E una vita agiata, diversa. Marian lo sa quello che vuole, sa dare concretezza ai suoi desideri e capiremo ben presto ciò che si accinge a fare.
Intorno a questa storia d'amore, ruotano tanti personaggi, comprimari, ma ben delineati: dalla direttrice del dipartimento di letteratura, una bella «cicciona» simpatica e materna (anche lei ci sorprenderà con una decisione importante) agli amici di Marian, la scombinata Lorena e suo marito DiBi. Dall'amico gay all'amico gigolò. Dall'ex marito fighetto alla di lui mamma fascinosa e vaporosa. Il tutto sullo sfondo di questa città che, per chi ha avuto la fortuna di vederla, non manca mai di esercitare una malia irresistibile, un fascino inspiegabile. Ma che da vivere può risultare impossibile.
Una storia raccontata con un linguaggio scanzonato, veloce, a volte allegro, a volte malinconico. Una scrittura che per la sua leggerezza inizialmente può stupire, personalmente devo dire che nelle prime pagine ho fatto un po' fatica a mettermi sulla lunghezza d'onda richiesta. Come ho faticato un poco a seguire gli sbalzi emotivi della protagonista che a parole sembra andare verso una decisione e mentalmente verso un'altra. Ecco, forse questo ondeggiamento, assolutamente comprensibile, poteva essere declinato, in qualche punto del libro in modo più armonioso. Ma una volta sincronizzato il ritmo, la lettura scorre piacevolmente, come il traffico continuo delle auto e dei bus turistici sul Malecón.
Un ultimo particolare: questo è anche un romanzo sulla letteratura, sui libri, sul potere che essi esercitano nelle nostre vite:
La letteratura è stata il ponte lungo il quale ho camminato con e verso le persone amate. (...) Ho provato a far diventare la letteratura il filo verso la felicità, un amuleto per scongiurare le assenze. Perché non mi restasse solo questo.
Insomma, tanti i fili che si intersecano e si sciolgono in questo romanzo della Pintado, la quale, nata all'Avana nel 1963, anch'essa la sua decisione l'ha presa. Che per i cubani risponde sempre alla stessa domanda, come una maledizione ormai, partire o restare? andarsene o rimanere? Vivere o sopravvivere?
Chi se ne va, si dice, sente sempre la mancanza di qualcosa: forse degli altri. Non conta quanti nuovi amici ti farai. Ti mancherà sempre qualcuno. Anche nel resto del mondo il cielo è blu, fa caldo, ci sono il mare e dei begli acquazzoni. Però a quello spazio manca il tempo. Quello che continua a scorrere senza di te, che scrosta le pareti, sbiadisce le fotografie e sotterra i vecchietti della casa all'angolo.
E quanto è vera questa riflessione lo può capire soltanto chi, per un motivo o per l'altro, è lontano dalla sua terra. Esule per scelta. O per necessità. Ma là, a casa, il tempo va avanti lo stesso, anche senza di te e scrosta le pareti e sbiadisce le foto. E cambia le cose, che quando torni non sono mai come le hai lasciate.