Foto di ©Carlo Traina |
Dopo aver letto e recensito il testo, ho voluto approfondire alcune tematiche intervistando l'autrice.
Nel suo La banalità del male Hannah Arendt mostra stupore nel constatare la piccolezza di Eichmann, un uomo che ha giustificato le proprie azioni affermando di aver solo eseguito degli ordini; un uomo tanto mostruoso perché umano nelle motivazioni. Senza andare fra le fila dei gerarchi nazisti e fascisti, in Sangue giusto ci mostri le crudeltà che gli italiani hanno saputo compiere nei villaggi e nelle città etiopi. Erano altri tempi, mi si obietterebbe, il razzismo era addirittura una teoria scientifica; eppure oggi assistiamo alle stesse scene: persone normali – padri e madri di famiglia, ma anche giovani – che “dimenticano” di avere a che fare con altri esseri umani.
Perché
accade questo? Perché non si riesce a riconoscere l’altro?
Accidenti, per cominciare l'intervista mi proponi proprio
dei temi facili facili: il Male, la separazione tra noi e l'Altro... Temo che la
risposta che mi chiedi, o meglio il tentativo di dare questa risposta, coincida
con buona parte del canone della letteratura, della filosofia e delle
tradizioni spirituali del mondo intero. Al di là delle battute, forse posso
risponderti con un pensiero della mia protagonista, Ilaria Profeti figlia di
Attilio: “la domanda che si
nasconde, inespressa e negata, dietro la maggior parte dei discorsi etichettati
come razzismo non è ‘chi sei tu?’,
bensì: ‘chi sono io?’.”
Come ho
scritto nella recensione al tuo romanzo, l’Italia post fascista non ha avuto la
sua Norimberga. So che di tale questione si è parlato moltissimo e che di libri
da leggere in merito ce ne sono dozzine, però vorrei conoscere la tua opinione
al riguardo.
Attraverso il mio protagonista ho cercato di
raccontare una “Norimberga mancata” individuale; ovvero, nel contesto generale
della mancata presa di responsabilità storica a cui, come dici, non è stata
chiamata l'Italia dagli Alleati dopo la guerra, quella di una singola persona,
Attilio Profeti appunto. Mi interessava descrivere le conseguenze, e non solo
su sé stesso ma sulla sua famiglia, i suoi rapporti interpersonali, la sua
intera vita, di questo iato, di questa distanza tra sé stesso e ciò che egli è
stato: la sua giovinezza fascista, gli ideali anche – ai nostri occhi – orrendi
in cui ha creduto, tutte cose che una volta finite semplicemente non nominerà
più, ma senza mai prenderne atto. Recentemente a una presentazione mi hanno
chiesto: “Ma insomma, questa mancata presa di responsabilità del fascismo, come
dovremmo farla una volta per tutte?”. Io credo che l'aspetto di conoscenza
della Storia sia una buona cosa ma – forse qualcuno si sorprenderà, visto i
romanzi che ho scritto finora – non la più necessaria. Mi pare più urgente affrontare
ciò che della mentalità del fascismo non è mai stato decostruito nella testa
delle persone, quel pensiero gerarchico implicito che ancora ritroviamo in
tanti italiani. Quello che si esprime in un grossolano razzismo quotidiano; nella
insopportabile e onnipresente misoginia di tantissimi uomini e, purtroppo,
anche donne, anche a sinistra; nelle relazioni sociali e di lavoro basate sul
privilegio e la provenienza di classe. E in tanti altri modi ancora.
Mi ha
colpito particolarmente uno dei personaggi di fatto meno influenti: Ernani
Profeti, padre di Attilio, un uomo vissuto all’ombra della moglie tanto amata e
del figlio Attilio, enfant (e homme) prodige. È proprio Ernani a compiere uno dei gesti più umani e
belli fra tutti quelli narrati nel libro, un gesto dalle ripercussioni negative
enormi; ma un gesto anche piccolo e inutile, se paragonato alla “storia con la
s maiuscola” che andava facendosi intorno a lui.
Non trovi
ironico e terribile il fatto che a risaltare nella storia e nella cronaca
quotidiana siano molto più spesso le azioni violente rispetto a quelle rivolte
al prossimo?
Proprio oggi riflettevo con un amico giornalista su
come una delle tante dimostrazioni di irresponsabilità dei media italiani sia il
disinteresse per ciò che non è, come dire, brutto, sporco e cattivo. Faccio un
esempio: un anno fa la copertura mediatica sulle barricate erette dagli
abitanti di Gorino, nel Ferrarese, contro l'arrivo di alcune profughe che lì
avrebbero dovuto essere accolte è stata grandissima; per giorni, i media non si
sono occupati di altro. E tuttavia, a un anno esatto di distanza da quelle
vicende, nessuna testata a parte La
Stampa ha raccontato che l'atmosfera in paese è cambiata, che molti abitanti
rimpiangono di essersi fatti manipolati da provocatori venuti da Ferrara e soprattutto
che il sindaco, che nel frattempo ha fatto un grande lavoro di sensibilizzazione
della popolazione, si è offerto di ospitare a Gorino vari minori stranieri non
accompagnati. Quello che voglio dire è che il fatto che certe cose risaltino e
altre no non è dovuto alla loro intrinseca natura, né a degli assoluti (“il
Male risalta, il Bene no”), bensì a motivi molto più terra terra. In altre
parole, a scelte specifiche compiute da qualcuno: la scelta per esempio di raccontare
qualcosa, oppure no, compiuta da chi avrebbe appunto il compito di raccontare
la realtà nelle sue tante sfumature. E invece finisce per raccontarla sempre in
un modo solo.
L’Italia ha
un rapporto peculiare con la memoria storica rappresentata da Attilio Profeti,
e in generale dalle persone nate a inizio Novecento. Faccio un solo esempio:
come anche tu fai notare a Roma, poco dopo piazzale Metronio, a due passi dalle
Terme di Caracalla, c’è via dell’Amba Aradam. Anche nel parlato questo termine
è associato a “un gran casino”, eppure dell’evento storico che c’è dietro si sa
pochissimo.
Cosa si può
fare, secondo te, per ricordare e dare il giusto peso alle parole?
Innanzitutto raccontare la loro storia, i loro
contesti. Un'autrice che sta facendo un lavoro prezioso a riguardo è Igiaba
Scego: nel bel libro Roma negata, realizzato
insieme al fotografo Rino BIanchi, ripercorre il contesto di tanti lasciti
dell'avventura coloniale e del fascismo nel tessuto urbanistico della capitale:
via Amba Aradam appunto, piazzale dei Cinquecento, il sito dove si ergeva la
stele di Axum e tanti altri...
Una domanda
forse scomoda. Ti concentri spesso sulla figura politica e umana di Silvio
Berlusconi: il suo “ventennio”, il rapporto con Gheddafi, lo scandalo sepolto
di Ruby (che, almeno nel tuo romanzo, provoca l’indignazione di un
parlamentare). Cosa rappresenta per te Berlusconi?
Nulla, se non sé stesso. Io non credo all'uso
simbolico delle persone. Silvo Berlusconi è una persona – peraltro ancora viva –
attiva nella politica italiana, che compie e ha compiuto delle azioni, ed è di
quelle mi interessa parlare, tutto qua. Non mi piace nemmeno quando sono
considerati simboli di qualcosa i personaggi – fittizi, quindi – dei miei
romanzi, o almeno, non solo. Vorrei che fossero appunto visti come personalità
che, seppure d'invenzione, hanno una loro tridimensionalità, ricchezza di
sfumature, contraddittorietà e ambivalenza – tutto il contrario cioè di quell'appiattimento
su una sola dimensione tipico dei simboli. Tanto meno mi piace quando questo lo
si fa con le persone reali. Purtroppo invece i media fanno ormai in continuazione
questo uso simbolico di eventi e persone. Narrano la realtà come se fosse un
grande spettacolo edificante ad uso di noi spettatori, una specie di “morality
play” permanente in cui eventi e protagonisti sono portatori univoci di un Senso
precostituito. Ma le cose non stanno così. La realtà è sporca, complessa,
impossibile da chiudere in ordinate scatole di significato, anche sulla distanza
del tempo figuriamoci poi nell'immediato. Non ho quindi molto interesse per
l'uso simbolico dei dati di realtà o delle persone che la abitano, mentre ne ho
tantissimo verso il tentativo di restituirne la complessità.
La storia di
Shimeta Iegmeta Attilaprofeti, che dall’Etiopia prende il mare per raggiungere
Roma, è tanto tragica quanto quotidiana. E nel tuo romanzo siamo solo nel 2010,
tempi di Primavera araba e caccia ai dittatori: oggi che le cose sono cambiate
in peggio e la gente muore nel Mediterraneo senza poter neanche lasciare una
traccia di sé, cosa ti senti di dire, da persona e da scrittrice?
Quando ho iniziato a scrivere Sangue Giusto era il
2012, e speravo che accordi come quelli tra Gheddafi e Berlusconi sui “respingimenti”
dei barconi carichi di migranti fossero una pagina buia che si era appena
conclusa e che sarebbe stata presto superata. Mi sbagliavo. Così come non
immaginavo che cinque anni dopo la legge Bossi-Fini fosse ancora là, a rendere
di fatto quasi impossibile l'immigrazione legale in Italia e a obbligare la
gente a rischiare la vita in viaggi impossibili; o che non ci fosse ancora una
legge di cittadinanza basata sul principio dello ius soli o ius culturae. Non
pensavo insomma che stavo scrivendo un romanzo che nel 2017 avrebbe avuto
ancora così tanti elementi di attualità. La cosa non mi dà alcun piacere, anzi.
David Valentini
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