Il Salotto - La memoria, la storia, gli esseri umani: intervista a Francesca Melandri

Foto di ©Carlo Traina
Sangue giusto è l'ultimo romanzo di Francesca Melandri, pubblicato da Rizzoli quest'anno. È un libro aspro e raffinato al contempo, che sa affrontare con la giusta onestà intellettuale una tematica spesso taciuta dalla narrativa contemporanea: l'occupazione fascista dell'Africa.
Dopo aver letto e recensito il testo, ho voluto approfondire alcune tematiche intervistando l'autrice.



Nel suo La banalità del male Hannah Arendt mostra stupore nel constatare la piccolezza di Eichmann, un uomo che ha giustificato le proprie azioni affermando di aver solo eseguito degli ordini; un uomo tanto mostruoso perché umano nelle motivazioni. Senza andare fra le fila dei gerarchi nazisti e fascisti, in Sangue giusto ci mostri le crudeltà che gli italiani hanno saputo compiere nei villaggi e nelle città etiopi. Erano altri tempi, mi si obietterebbe, il razzismo era addirittura una teoria scientifica; eppure oggi assistiamo alle stesse scene: persone normali – padri e madri di famiglia, ma anche giovani – che “dimenticano” di avere a che fare con altri esseri umani.
Perché accade questo? Perché non si riesce a riconoscere l’altro?
Accidenti, per cominciare l'intervista mi proponi proprio dei temi facili facili: il Male, la separazione tra noi e l'Altro... Temo che la risposta che mi chiedi, o meglio il tentativo di dare questa risposta, coincida con buona parte del canone della letteratura, della filosofia e delle tradizioni spirituali del mondo intero. Al di là delle battute, forse posso risponderti con un pensiero della mia protagonista, Ilaria Profeti figlia di Attilio: “la domanda che si nasconde, inespressa e negata, dietro la maggior parte dei discorsi etichettati come razzismo non è ‘chi sei tu?’, bensì: ‘chi sono io?’.”

Come ho scritto nella recensione al tuo romanzo, l’Italia post fascista non ha avuto la sua Norimberga. So che di tale questione si è parlato moltissimo e che di libri da leggere in merito ce ne sono dozzine, però vorrei conoscere la tua opinione al riguardo.
Attraverso il mio protagonista ho cercato di raccontare una “Norimberga mancata” individuale; ovvero, nel contesto generale della mancata presa di responsabilità storica a cui, come dici, non è stata chiamata l'Italia dagli Alleati dopo la guerra, quella di una singola persona, Attilio Profeti appunto. Mi interessava descrivere le conseguenze, e non solo su sé stesso ma sulla sua famiglia, i suoi rapporti interpersonali, la sua intera vita, di questo iato, di questa distanza tra sé stesso e ciò che egli è stato: la sua giovinezza fascista, gli ideali anche – ai nostri occhi – orrendi in cui ha creduto, tutte cose che una volta finite semplicemente non nominerà più, ma senza mai prenderne atto. Recentemente a una presentazione mi hanno chiesto: “Ma insomma, questa mancata presa di responsabilità del fascismo, come dovremmo farla una volta per tutte?”. Io credo che l'aspetto di conoscenza della Storia sia una buona cosa ma – forse qualcuno si sorprenderà, visto i romanzi che ho scritto finora – non la più necessaria. Mi pare più urgente affrontare ciò che della mentalità del fascismo non è mai stato decostruito nella testa delle persone, quel pensiero gerarchico implicito che ancora ritroviamo in tanti italiani. Quello che si esprime in un grossolano razzismo quotidiano; nella insopportabile e onnipresente misoginia di tantissimi uomini e, purtroppo, anche donne, anche a sinistra; nelle relazioni sociali e di lavoro basate sul privilegio e la provenienza di classe. E in tanti altri modi ancora.

Mi ha colpito particolarmente uno dei personaggi di fatto meno influenti: Ernani Profeti, padre di Attilio, un uomo vissuto all’ombra della moglie tanto amata e del figlio Attilio, enfant (e homme) prodige. È proprio Ernani a compiere uno dei gesti più umani e belli fra tutti quelli narrati nel libro, un gesto dalle ripercussioni negative enormi; ma un gesto anche piccolo e inutile, se paragonato alla “storia con la s maiuscola” che andava facendosi intorno a lui.
Non trovi ironico e terribile il fatto che a risaltare nella storia e nella cronaca quotidiana siano molto più spesso le azioni violente rispetto a quelle rivolte al prossimo?
Proprio oggi riflettevo con un amico giornalista su come una delle tante dimostrazioni di irresponsabilità dei media italiani sia il disinteresse per ciò che non è, come dire, brutto, sporco e cattivo. Faccio un esempio: un anno fa la copertura mediatica sulle barricate erette dagli abitanti di Gorino, nel Ferrarese, contro l'arrivo di alcune profughe che lì avrebbero dovuto essere accolte è stata grandissima; per giorni, i media non si sono occupati di altro. E tuttavia, a un anno esatto di distanza da quelle vicende, nessuna testata a parte La Stampa ha raccontato che l'atmosfera in paese è cambiata, che molti abitanti rimpiangono di essersi fatti manipolati da provocatori venuti da Ferrara e soprattutto che il sindaco, che nel frattempo ha fatto un grande lavoro di sensibilizzazione della popolazione, si è offerto di ospitare a Gorino vari minori stranieri non accompagnati. Quello che voglio dire è che il fatto che certe cose risaltino e altre no non è dovuto alla loro intrinseca natura, né a degli assoluti (“il Male risalta, il Bene no”), bensì a motivi molto più terra terra. In altre parole, a scelte specifiche compiute da qualcuno: la scelta per esempio di raccontare qualcosa, oppure no, compiuta da chi avrebbe appunto il compito di raccontare la realtà nelle sue tante sfumature. E invece finisce per raccontarla sempre in un modo solo.

L’Italia ha un rapporto peculiare con la memoria storica rappresentata da Attilio Profeti, e in generale dalle persone nate a inizio Novecento. Faccio un solo esempio: come anche tu fai notare a Roma, poco dopo piazzale Metronio, a due passi dalle Terme di Caracalla, c’è via dell’Amba Aradam. Anche nel parlato questo termine è associato a “un gran casino”, eppure dell’evento storico che c’è dietro si sa pochissimo.
Cosa si può fare, secondo te, per ricordare e dare il giusto peso alle parole?
Innanzitutto raccontare la loro storia, i loro contesti. Un'autrice che sta facendo un lavoro prezioso a riguardo è Igiaba Scego: nel bel libro Roma negata, realizzato insieme al fotografo Rino BIanchi, ripercorre il contesto di tanti lasciti dell'avventura coloniale e del fascismo nel tessuto urbanistico della capitale: via Amba Aradam appunto, piazzale dei Cinquecento, il sito dove si ergeva la stele di Axum e tanti altri...

Una domanda forse scomoda. Ti concentri spesso sulla figura politica e umana di Silvio Berlusconi: il suo “ventennio”, il rapporto con Gheddafi, lo scandalo sepolto di Ruby (che, almeno nel tuo romanzo, provoca l’indignazione di un parlamentare). Cosa rappresenta per te Berlusconi?
Nulla, se non sé stesso. Io non credo all'uso simbolico delle persone. Silvo Berlusconi è una persona – peraltro ancora viva – attiva nella politica italiana, che compie e ha compiuto delle azioni, ed è di quelle mi interessa parlare, tutto qua. Non mi piace nemmeno quando sono considerati simboli di qualcosa i personaggi – fittizi, quindi – dei miei romanzi, o almeno, non solo. Vorrei che fossero appunto visti come personalità che, seppure d'invenzione, hanno una loro tridimensionalità, ricchezza di sfumature, contraddittorietà e ambivalenza – tutto il contrario cioè di quell'appiattimento su una sola dimensione tipico dei simboli. Tanto meno mi piace quando questo lo si fa con le persone reali. Purtroppo invece i media fanno ormai in continuazione questo uso simbolico di eventi e persone. Narrano la realtà come se fosse un grande spettacolo edificante ad uso di noi spettatori, una specie di “morality play” permanente in cui eventi e protagonisti sono portatori univoci di un Senso precostituito. Ma le cose non stanno così. La realtà è sporca, complessa, impossibile da chiudere in ordinate scatole di significato, anche sulla distanza del tempo figuriamoci poi nell'immediato. Non ho quindi molto interesse per l'uso simbolico dei dati di realtà o delle persone che la abitano, mentre ne ho tantissimo verso il tentativo di restituirne la complessità.

La storia di Shimeta Iegmeta Attilaprofeti, che dall’Etiopia prende il mare per raggiungere Roma, è tanto tragica quanto quotidiana. E nel tuo romanzo siamo solo nel 2010, tempi di Primavera araba e caccia ai dittatori: oggi che le cose sono cambiate in peggio e la gente muore nel Mediterraneo senza poter neanche lasciare una traccia di sé, cosa ti senti di dire, da persona e da scrittrice?
Quando ho iniziato a scrivere Sangue Giusto era il 2012, e speravo che accordi come quelli tra Gheddafi e Berlusconi sui “respingimenti” dei barconi carichi di migranti fossero una pagina buia che si era appena conclusa e che sarebbe stata presto superata. Mi sbagliavo. Così come non immaginavo che cinque anni dopo la legge Bossi-Fini fosse ancora là, a rendere di fatto quasi impossibile l'immigrazione legale in Italia e a obbligare la gente a rischiare la vita in viaggi impossibili; o che non ci fosse ancora una legge di cittadinanza basata sul principio dello ius soli o ius culturae. Non pensavo insomma che stavo scrivendo un romanzo che nel 2017 avrebbe avuto ancora così tanti elementi di attualità. La cosa non mi dà alcun piacere, anzi. 

David Valentini