di Ismail Kadare
La Nave di Teseo, 2017
Traduzione di Liljana Cuka Maksuti
pp. 128
€ 17 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Quanti modi vi vengono in mente per parlare della propria madre in letteratura? L'idea di ripercorrere la sua vita dopo il trauma della morte (più o meno preparata secondo le tendenze dell'Ottocento, più o meno desiderata seguendo alcune pulsioni freudiane nel Novecento), non è nuova, è un topos che si rincorre in tutte le letterature del mondo. Eppure, quanti hanno paragonato la madre a una bambola, con «il biancore e l'immobile impenetrabilità di una maschera» (p. 10)? La madre del narratore, che parrebbe coincidere in tutto e per tutto con l'autore (ma occorre sempre diffidare del narratore autobiografico), «somigliava a una specie di disegno o di schizzo, un dipinto da cui non si riusciva a uscire» (ivi), incomprensibile fino in fondo, di una fragilità emotiva abbacinante, con gli anni destinata a diventare anche leggerezza del corpo.
Prigioniera di una casa che non sentiva sua ad Argirocastro, con una suocera ingombrante e nella discussa famiglia dei Kadare, numerosa, ostentatamente in vista, la giovanissima sposa si è trovata fin da subito a fare i conti con responsabilità e solitudine. Davanti alle rappresaglie della suocera e ai battibecchi, la Bambola chiede muto aiuto al marito che, giudice di mestiere, improvvisa processi per stabilire di volta in volta chi ha torto e chi ha ragione, occupandosi «sempre della stessa questione: la freddezza e l'incomprensione nella casa dei Kadare» (p. 29).
Nelle maglie molto morbide del flashback non tardano a infilarsi le considerazioni di Kadare via via più grande, con i suoi sogni, le aspettative di diventare scrittore, la sua vita, che sempre più raramente incrocia quella della madre, forse perché «l'aspetto disegnato della Bambola lo faceva doppiamente allontanare da lei»:
Anno dopo anno mi ero abituato a lei ed era come se avessi conosciuto il segreto di un tiranno senza potere (tu puoi terrorizzare, ma è ben altro che può mettermi paura). (p. 72)
I meccanismi di affermazione del proprio debole e vetusto potere sono sempre più chiari agli occhi di Ismail, che tuttavia prova una certa tensione nel momento in cui vuole presentare (forse un po' provocatoriamente) la propria fidanzata a casa. Il pranzo di famiglia riproduce esattamente le dinamiche del passato, solo che stavolta tocca a Ismail ricoprire il ruolo di suo padre, «cioè fare giustizia in caso di guerra tra loro due» (p. 82), cioè tra la prima donna del suo passato e la sua vera donna del presente. E lui stesso percepisce, con questo passaggio di consegne, che «il cerchio si stava per chiudere» (ivi).
Da questo piccolo romanzo, che mescola sapientemente autobiografia e memoir, Ismail Kadare racconta della madre e di sé con la spietatezza della parsimonia aggettivale, che lascia ancor più nuda la sincerità di un rapporto di porcellana.
GMGhioni
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