Storia inimitabile del Dandy
di Ellen Moers
Traduzione di Franco Niederberger
Odoya, 2017
(Prima edizione originale: Seeker & Warburg, 1960)
Prima edizione italiana: Rizzoli, 1965)
pp. 373
Euro 22,00
Provate a digitare la parola dandy su un qualsiasi motore di ricerca e prestate attenzione alle immagini che questo selezionerà per voi. Vi renderete presto conto che sul parterre virtuale sfileranno le foto di uomini di ogni età anagrafica e di diverse epoche storiche, tuttavia accomunati da una certa perizia (se non proprio da un’evidente mania) nella cura della persona: una varietà di istantanee a colori e in bianco e nero raffiguranti giovanotti prestanti in completo a tre pezzi, gentlemen dall’aria compassata con copricapo e bastone da passeggio, signori distinti freschi di barberia, modelli azzimati su set fotografici allestiti per la confezione di editoriali a tema; e poi ancora accostamenti azzardati di colori e fantasie, pince-nez e fiori all’occhiello, bombette e cilindri, tartan e principe di Galles, figurini ottocenteschi dalle tenui tinte pastello e un numero sintomaticamente alto di ritratti e caricature di Oscar Wilde. Qua e là potrebbe spuntare anche qualche signorina abbigliata alla garçonne, che con indosso cravattino, camicia e redingote sartoriali suggerisca la necessità di qualche pensierino sul gender stesso del dandy e sulla traducibilità del dandismo in una moda unisex (e dunque – perché no? – in una mera posa). Un fatto, ad ogni modo, resta certo: sebbene l’esteriorità e l’estetica giochino un ruolo di primo piano nella definizione della categoria, archiviare tutti i dandy all'interno di un unico fascicolo sarebbe il più grossolano degli errori. E questo lo sapeva bene anche la studiosa e docente di letteratura americana Ellen Moers, quando, nel 1960, dava alle stampe per la prima volta The Dandy, Brummell to Beerbohm, tradotto in Italia da Rizzoli nel 1965 e appena ripubblicato da Odoya.
Chi era, dunque, il dandy? Quale la sua origine e il suo status? Quale la sua classe sociale, il suo tenore di vita, la sua eventuale professione? Quale la sua ragion d’essere e, a un certo punto, di non essere più? La studiosa prova a rispondere fissando come prima cosa degli estremi temporali, calando la figura del dandy all’interno di contesti precisi e suggerendo tuttavia fin dal titolo la declinazione potenzialmente infinita del fenomeno dandistico stesso, dal momento che questo personaggio trovò sempre la sua cifra nell’esclusività (o perlomeno questa fu la sua aspirazione) e che nessun dandy degno di questo nome fu mai la copia di qualcun altro (al netto dell’eventuale ammirazione). Proprio il titolo dell’edizione inglese – a differenza di quello pensato per il mercato italiano, Storia inimitabile del Dandy, in cui è sottilmente più esplicito il rimando fuorviante a una specie di categoria unica e onnicomprensiva (si noti anche la scelta della maiuscola) – chiarisce al lettore l’esistenza di almeno due figure di riferimento (e dunque di due estremi temporali) ma anche di una lunga “scala di grigi” (e dunque di dandy in carne e ossa): George Bryan Brummell detto “Beau” (1778-1840), primo vero dandy della storia, e Sir Max Beerbohm (1872-1956), colui che ne decretò la fine in quanto fenomeno culturale, sociale e finanche politico.
Nato nel pieno della Reggenza inglese – ovvero nei trent’anni di governo di Giorgio IV (1800-1830) – il dandismo conobbe una varietà di declinazioni e di conseguenti reazioni da parte della società, nella madrepatria inglese e poi principalmente in Francia, la più diretta “colonia” in cui il fenomeno venne esportato per conoscere la sua maggiore fortuna nel periodo della Restaurazione. Impossibile ridurre il dandy a poche e comode categorie predefinite, poiché nella sua storia convissero sempre in una speciale amalgama tratti di esclusivismo e mondanità, di eleganza e stravaganza, di eccentricità e buone maniere; i connotati dello snob fecero il paio con quelli del ton, il parassitismo con lo sperpero, il disprezzo della borghesia con l’attaccamento ai beni materiali, il disimpegno assoluto con la piena coscienza del proprio tempo. Rendendo conto e allo stesso tempo andando oltre le definizioni più riduttive e fuorvianti – come quella, entrata nell’immaginario comune, del cosiddetto “dandy farfalla”, di cui Alfred Guillaume Gabriel conte d’Orsay (1801-1852) fu forse l’esponente più significativo – Moers imposta il suo discorso in chiave cronologica, con un’analisi sofisticata che rende conto dell’accoglienza del fenomeno nei decenni presi in esame; si pensi, a titolo d’esempio, alla fiorente stampa satirica e alla saggistica dedicata all’argomento, ma anche alle trattazioni vere e proprie dei letterati coevi, che non solo non mancarono di inserire nei loro scritti personaggi dal dandismo più o meno spiccato, ma non furono esenti a propria volta dal fascino del fenomeno: da Honoré de Balzac (1799-1855) a Charles Dickens (1812-1970) fino al già citato Oscar Wilde (1854-1900) e a Charles Baudelaire (1821-1867), che proprio nel dandy individuò un’eccellente cartina di tornasole della propria contemporaneità, sonda sensibilissima capace di penetrare ben più a fondo dell’estetica, percettore dell’abissale profondità di ciò che il senso comune preferirebbe declassare a mera superficie.
Storia inimitabile del Dandy è un testo ambizioso e tutt’altro che aneddotico pur nel suo ricorso a numerose e gustose storielle, un contributo certamente complesso eppure mai ostico, che piacerà agli appassionati di storia tout court, di storia della letteratura e di storia del costume; e se in coda al volume, in aggiunta, non mancano un ricco apparato di note bibliografiche e un utilissimo indice dei nomi, nelle sue quasi quattrocento pagine i contenuti si alternano alle belle riproduzioni di ritratti, vignette, caricature e foto d’epoca (peccato solo per l’impaginazione un poco disomogenea, non all’altezza della pur raffinata selezione di immagini). A quasi cinquant’anni dalla prima uscita, e a circa un secolo dalla scomparsa della figura del dandy nella sua accezione più rigorosa e, per così dire, filologica, il lavoro di Moers non ha perso nulla del suo smalto originario e della sua capacità di coniugare l’apparente frivolezza dell’argomento con la profondità dello scandaglio critico; doti alle quali va aggiunta anche la piacevolezza dello stile, talmente chiaro e godibile a dispetto dei decenni trascorsi da far pensare con vivo dolore alle oscurità di una certa prosa accademica contemporanea; la stessa che tante, troppe volte pare compiacersi di un proprio malinteso esclusivismo - scimmiottamento pessimo, questo, di un presupposto (e più che mai volgare) “dandismo della conoscenza”.
Cecilia Mariani