Il
libro del mare (Havboka)
di Andreas
Iperborea, 2017
Traduzione di: Francesco Felici
pp. 352
€ 17,50
Le voci di punta della narrativa contemporanea provenienti da un certo parallelo in su, diciamo dal cinquantesimo nord, sono targate Iperborea. Generalmente una casa editrice con titoli di qualità grazie ai quali abbiamo potuto scoprire un Cees Nooteboom, una Selma Lagerlöf e che l’Islanda non è solo un’isola di saghe e poesia scaldica ma anche di romanzi attuali. Tuttavia, mi pare che questo catalogo finisca sempre per farci cadere in mezzo a pagine belle ma di una bellezza, come dire, un po’ algida.
Sarà per una questione climatica,
sarà per il buio a mezzogiorno, e come contraltare il sole a mezzanotte, sarà
che il tempo viene scandito secondo ritmi che si avvicinano a un immenso giorno
e a un’immensa notte. Così, anche quando si affrontano sentimenti e lacerazioni,
è come se ci fosse sopra una tenace patina di gelo che non
permette di scavare a fondo. E quando l’oscurità arriva troppo in fretta o la luce persiste a ore
impensabili il rischio è che non si faccia in tempo a cogliere le sfumature.
Ci sono i paesaggi, i
fiordi, le isole a ridosso della costa, isole da cartolina. E il mare. Con cui questi
popoli fanno i conti fin dall’epoca di Erik il Rosso, che scoprì le terre
occidentali ben prima di Colombo o Caboto. Verso
il mare c’è un atteggiamento che oscilla tra intenti predatori e rispetto.
La caccia alle balene o le trivellazioni petrolifere da un parte, un libro come
questo dall’altra. Un libro che fa spazio a una dimensione
esistenziale. I panorami nordici, la luce radente, i fari, il freddo e la
potenza della natura, i grandi silenzi delle terre e degli uomini. Due di
questi uomini si mettono in testa di cacciare lo squalo della Groenlandia, un
predatore ancestrale a forma di sigaro che campa fino a 500 anni con gli occhi
divorati da fastidiosi parassiti degli abissi.
L’autore
ne sfida l’ingegno e la potenza insieme a un amico artista-pescatore che, fra
un escursione e l’altra in acque gelide, si preoccupa di rimettere in sesto una
stazione marittima da dove salpare. E tra un’onda e l’altra, tra una particella
di vita e l’altra, emergono racconti che
rievocano Stevenson, Verne, i viaggi dei navigatori greci in vista dell’ultima Thule e, inevitabilmente,
Melville. La vita è quella degli uomini, che galleggia su un gommone o si arrabatta
in un fiordo. Ma ai nostri occhi sfugge un altro universo, quello dove
sonnecchiano lo squalo della Groenlandia e altre indescrivibili creature. La sublimazione
delle bestie che popolavano le cronache medievali e rinascimentali e la
miniaturizzazione dei mostri ben più mostri che in epoche cambriane dominavano
il pianeta.
Pianeta
che a sua volta era ricoperto per lo più di acqua. Non che la situazione sia
particolarmente mutata ma all’epoca di Pangea o di altri mitici continenti,
prima della loro deriva, la Terra doveva a maggior ragione chiamarsi Mare.
Se abbiamo denominato così questo puntolino del cosmo, evidentemente l’elemento
liquido mantiene intatto il suo valore inquietante mentre il suolo calpestabile
offre maggiori sicurezze antropologiche.
E “Il libro del mare” restituisce questa apprensione, il mare non è tanto la somma di tanti pesci voraci ma un unico gorgo immenso disposto a inghiottirci. Osservandolo, al freddo di certe latitudini, tutto diventa piccolo, perfino le costellazioni, figuriamoci gli uomini. È questa sensazione il lascito più convincente del romanzo-reportage-racconto storico naturalistico. Ma in tutto questo, ecco affiorare il suo difetto iperboreo. A un certo punto scivola verso una successione di considerazioni che non uccidono l’interesse ma attenuano il pathos. I passaggi cruciali si susseguono e ci avvicinano, lambendoci senza incisività, come lo squalo della Groenlandia che sembra non debba abboccare neanche se si tenta di attirarlo con l’esca più ricercata.
Marco Caneschi
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