Al largo
di Wyl Menmuir
di Wyl Menmuir
Bompiani, 2017
160 pp.
€ 16
Al largo è
uno di quei libri che, terminata la lettura, possono lasciare nel lettore solo una
di queste due distinte e nette sensazioni: completo disagio o completo
coinvolgimento.
Il romanzo d’esordio di Menmuir è infatti uno di quei testi la cui trama,
di fatto debole e sfilacciata, risulta mero espediente per raccontare uno stato d’animo
persistente del protagonista. Di più: una condizione esistenziale, un momento
della vita in cui qualcosa è accaduto e lo si sta affrontando nel proprio mondo
interiore. Ciò che accade (o sembra accadere) all’esterno è mero riflesso del turmoil emotivo di chi vive la vicenda.
Che la trama di Al
largo sia funzionale a rappresentare il vissuto lo si capisce solo avanti
nella lettura, quando le atmosfere cupe, i luoghi evanescenti e gli eventi che sfociano nel surreale trovano una propria connotazione e stabilità, fino ad
abbandonare completamente quel maldestro tentativo di affondare le radici in
una sorta di “realismo reale” che troviamo a inizio storia. Niente di ciò che
accade sembra più avere senso dopo un certo momento, complici anche gli stati
alterati del protagonista che passa costantemente, a causa di una non ben
precisata “malattia”, fra mondo reale e mondo onirico. Ecco che dunque, verso
la fine, con una rivelazione di fondamentale importanza gettata là come se
fosse un fattarello qualsiasi (e che risponde almeno in parte alla domanda
essenziale del libro: chi è Perran, e perché
è così grave che, dopo la sua scomparsa circa dieci anni prima, il nuovo
arrivato Timothy sia andato a vivere dentro la sua ex casa?) noi lettori
cominciamo a farci una certa idea su cosa stiamo leggendo.
Ma fino a quel momento, fino a quella rivelazione,
lo stato d’animo persistente del lettore è il disagio da mancata comprensione.
Saranno appunto le atmosfere, i personaggi frammentati, o gli eventi allungati
fino all’estremo (strazianti le minute descrizioni degli accadimenti quotidiani
del protagonista Timothy, così come straziante è doversi soffermare di continuo
su dettagli ininfluenti e ripetitivi, monotoni, e che solo a posteriori
acquisiscono senso), ma il senso di spaesamento è costante e non si scioglie
neanche dopo l’ultima pagina.
A questi elementi metanarrativi si deve aggiungere
ciò che accade nella narrazione stessa: ad esempio la presunta
incapacità/impossibilità del protagonista Timothy di lasciare il luogo, di
farsi comprendere/accettare dagli altri abitanti, di entrare in contatto vero
con la moglie Lauren (personaggio sempre soltanto nominato e accennato, ma
assente nella storia). Questo groviglio di impossibilità ricorda tantissimo il
Kafka del Castello e del Processo perché i rituali quotidiani e
le singole azioni che vengono portati avanti cozzano sempre contro qualche
ostacolo; ma anche perché, per quanto sia chiaro l’obiettivo ultimo del
protagonista (in questo caso acquistare una casa e rimetterla a posto
inizialmente e scoprire l’identità di Perran poi), non si riesce a focalizzare
bene in che modo possa essere raggiunto. È un continuo fuggire dell’orizzonte
al di là delle possibilità umane, un continuo allontanarsi di qualcosa che sembrava
essere a portata di mano.
Al largo è
dunque un libro il cui contenuto stesso acquisisce un senso diverso a seconda dell’interpretazione
che si vuole dare. È un romanzo di atmosfere più che di
azioni. E sebbene lasci perplessi in più punti e corra il rischio di una
mancata comprensione (complice anche l’estrema intensità di queste poche 160
pagine, che sembrano molte di più), il finale apertissimo e la pluralità dei
significati gli conferiscono una buona longevità.
Personalmente ne consiglio una seconda o terza lettura, che magari possono dare spazio a seconde o terze interpretazioni.
Personalmente ne consiglio una seconda o terza lettura, che magari possono dare spazio a seconde o terze interpretazioni.
David Valentini