Francesca Magni |
In quest'ottica, allora si può leggere l'istantanea finale, più che come semplice indice del passare del tempo che sana le ferite:
“Adesso ci sono tutti. Centoquaranta. Diciotto persone mancine, nove con la erre moscia, una cinquantina con occhiali da vicino o da lontano, tre con i capelli rossi, trentadue uomini più calvi di quindici anni prima […]. Qualcuno è diventato ricco, qualcuno vegetariano, qualcuno buddista. […] C’è chi pensa di aver capito e chi no; chi ha avuto l’impressione, per un momento che le cose diventassero chiare, ma poi tutto si è offuscato di nuovo”
La
suggestione del testo, ricchissimo in stimoli e contenuti, ci ha portato oggi a
dialogare con l’autrice, la giornalista Francesca Magni, che si è prestata alle
nostre domande con generosità e passione vera.
La
storia che racconti coinvolge immediatamente per il tipo di focalizzazione e
per il taglio che scegli di dare al testo: il protagonista è apparentemente
Teo, ma ci si mette poco a realizzare che in realtà l'attenzione è rivolta
all'intera famiglia e che ognuno dei componenti pesa in ugual misura
nell'economia narrativa. La dislessia quindi non influisce solo sul singolo, ma
ha delle importanti implicazioni relazionali. Quali?
La
dislessia, che è una neurovarietà come il mancinismo, comporta difficoltà nella
lettura e a volte nell’ortografia, ma anche alcune caratteristiche particolari
della memoria, che è eccellente nel trattenere storie ma fatica a fissare il
lessico, ed è fragile nell’automatizzazione delle sequenze di parole o gesti
(Teo per esempio non memorizzava i nomi dei mesi, non imparava a leggere
l’orologio e ad allacciare le scarpe). La dislessia è un modo di funzionare del
cervello di fronte all’apprendimento, ma coinvolgendo in generale l’approccio
alla realtà, si configura come un vero e proprio modo di essere. La famiglia di
Teo, che di dislessia non sapeva niente, deve rivedere i propri giudizi: Teo
non è un ragazzino inspiegabilmente rabbioso, non è svogliato a scuola, non è
pigro e con la testa fra le nuvole, non è un po’ bizzarro perché impara interi
audiolibri a memoria e poi scambia trasfusione con trasferimento, o dice
aggredevole anziché aggressivo... Teo ha una caratteristica congenita, che come
tale è ereditaria. Attorno a lui altri adulti si accorgono di avere
caratteristiche simili, ognuno in una propria combinazione e declinazione
personale: il papà, un nonno, una nonna, uno zio... Questa scoperta apre gli
occhi a tutti, spinge ogni membro della famiglia a una consapevolezza nuova.
All’inizio non è facile riconoscere questa “diversità”, accettare l’agnizione.
Ma attraversata una fase di crisi, proprio la dislessia diventa la ragione per
cui i membri della famiglia ora si conoscono meglio e si vogliono bene in modo
più autentico. Perché quando sai perché una persona si comporta in un certo
modo, la tua relazione con lei non può che migliorare.
Il tuo libro si sofferma in particolare sugli ostacoli dell'apprendimento legati alla fase della preadolescenza e delle scuole medie. Come cambiano le cose crescendo? Prevale il miglioramento legato allo sviluppo di strategie di compensazione autonoma o la difficoltà connessa con l'aumento del carico di lavoro?
Crescendo, lo sviluppo di
strategie di compensazione e una più chiara conoscenza che il dislessico
acquisisce delle proprie caratteristiche lo aiutano ad andare avanti negli
studi. Specie se si lavora per sostenere la sua autostima e la sua certezza di
potercela fare, se si lavora per obiettivi frazionati e successivi,
mostrandogli che i risultati possono arrivare. Nel caso di Teo, che ha scelto
di iscriversi al liceo classico, le difficoltà intrinseche al tipo di studio
sono oggettive, ma non sono insormontabili di per sé: è il modo in cui viene
organizzato l’insegnamento - quale che sia la materia - a renderlo accessibile
o inaccessibile a un dislessico. Faccio un esempio. Il dislessico fatica a
ripetere una declinazione o una coniugazione verbale "a filastrocca" (vedi le
fragilità nella memoria del lessico di cui si diceva), ma è in grado di
approcciare il testo con logica e di tradurre; si tratta quindi di avere come
obiettivo la traduzione e non la cantilena delle desinenze, si tratta di dare
versioni e non compitini di verbi isolati dal contesto. Il dislessico
potrebbe aver bisogno del supporto della morfologia più a lungo di un non
dislessico, perciò occorre essere laici nell’uso di questo strumento. Inoltre
beneficerà sicuramente di un metodo che gli insegni a usare i colori per
identificare le parti del discorso e i casi: all’inizio l’insegnante può
sottolineare, con colori predefiniti, nomi, aggettivi, verbi, poi sarà il
ragazzo a farlo, finché smetterà di averne bisogno. Sono accorgimenti semplici,
che tra l’altro aiuterebbero tutti gli studenti. I dislessici possono fare
qualunque scuola, secondo la loro inclinazione personale e motivazione, a patto
che si lavori creativamente e per obiettivi.
Quanto
pesa, sul percorso di crescita del ragazzo dislessico, incontrare persone che
conoscono e comprendono il problema, rispetto ad altri che invece si basano
ancora sul sentito dire e su informazioni approssimative?
Le persone che il dislessico
incontra sul suo cammino fanno la differenza! Possono portarlo a raggiungere
gli obiettivi più alti come indurlo all’abbandono scolastico.
Capita ancora di sentire
dire che la dislessia è una scusa delle famiglie benestanti per far promuovere
i figli pigri; nella realtà la dislessia è causa di incomprensione, disistima,
bullismo (subito e agito), abbandono scolastico, difficoltà a inserirsi nel
mondo del lavoro e devianza sociale. Studi nelle carceri del Regno Unito
parlano di più del 50% di dislessici tra i detenuti; in Italia studi ufficiosi
in alcuni carceri minorili parlano di percentuali analoghe. Conoscere la
dislessia, dunque, è un dovere di tutti. È un tema che nella scuola trova il
suo punto di incaglio, ma va ben oltre: ha a che fare con i diritti umani ed è
potenzialmente un problema sociale.
Oggi molti insegnanti
seguono corsi sulla dislessia ma la cosa è lasciata alla loro iniziativa o a
quella dell’istituto in cui lavorano. Io credo che la capacità di individuare i
segnali della dislessia dovrebbe essere requisito indispensabile per ottenere
l’abilitazione all’insegnamento. Un medico non può curare i pazienti senza
conoscere l’anatomia e così un insegnante non può essere efficace nel suo
mestiere se non conosce tutte le vie che portano all’apprendimento - quelli che
oggi si iniziano a chiamare stili di apprendimento e riguardano tutti, non solo
i dislessici.
Tempo
fa ho letto un memoir di Philip Schultz, poeta americano che
ha vinto il premio Pulitzer per la poesia e che racconta della propria
dislessia, scoperta solo in età adulta, nel momento in cui il figlio ha
iniziato ad avere difficoltà scolastiche (con un itinerario per certi versi
simile a quello descritto nel tuo libro). Il suo scritto fa emergere bene lo
stretto rapporto che c'è tra dislessia e poesia, tra dislessia e creatività.
Considerando che la recezione sociale e scolastica dei disturbi
dell'apprendimento tende a metterne in evidenza soprattutto gli aspetti
problematici, quali pensi che siano invece le peculiarità e i punti di forza
del ragazzo dislessico?
Se la scuola fa emergere
soprattutto gli aspetti problematici della dislessia è perché il modo di
insegnare è spesso in collisione con le caratteristiche del dislessico (ogni
materia diventa una filastrocca da imparare a memoria, si fanno quiz e prove a tempo,
c’è un’impostazione competitiva dello studio, lezioni frontali, il lavoro di
imparare si svolge a casa da soli anziché in classe con l’insegnante...). Ma
chi ha dislessici in famiglia conosce la loro creatività: nel disegno, nelle
costruzioni e nelle arti manuali o nella musica; mio figlio scrive temi
bellissimi, il figlio (dislessico) di un’amica scrive poesie... Senza cadere
nella retorica perniciosa del dislessico genio, ognuno ha i suoi punti forza.
La neurologa comportamentale Marilù Gorno Tempini del Dyslexia Center di San Francisco ha spiegato che la dislessia
potrebbe addirittura essere un tentativo dell’evoluzione di sperimentare un
cervello diverso. I dislessici in genere hanno
un approccio olistico ai problemi, che sanno vedere nella loro globalità e al
tempo stesso ridurre all’essenza. Di mio figlio e di mio marito, entrambi
dislessici, ammiro la capacità di sintesi, di cogliere l’essenza delle
questioni, di elaborare soluzioni non ovvie, anche attraverso percorsi che il
senso comune giudicherebbe bizzarri. Il dislessico, diciamo noi a casa, è uno
che guarda il buco al posto della ciambella.
Secondo alcuni studi, la
dislessia è associata anche a una grande capacità di immedesimazione nel punto
di vista altrui, ragione per cui ci sono molti dislessici tra i politici e gli
attori, oltre che tra gli imprenditori di successo. Nella vita scolastica il
ragazzo dislessico è senz’altro abituato a cercare strategie alternative per
raggiungere obiettivi che i suoi compagni raggiungono con facilità: questo lo
rende più fragile sul fronte dell’ansia e dell’autostima, ma più forte nel
problem solving e nell’elaborazione di strategie fuori dal comune.
Un
elemento che ho trovato particolarmente interessante, nel discorso che porti
avanti attraverso e oltre la narrazione della storia di Teo, è la speranza che
in futuro non ci sia più la necessità di certificare la dislessia, essendo
questa semplicemente una delle possibili e infinite varianti dell'essere umano.
Tra parentesi, condivido appieno l'idea, dato che per esperienza personale ho
constatato che l'associazione dislessia=andamento scolastico
negativo/difficoltà nelle materie umanistiche è un luogo comune non
necessariamente vero. Quali sono attualmente gli ostacoli e le resistenze
maggiori alla diffusione di questo pensiero?
Credo che gli ostacoli siano
essenzialmente due. Il primo è che non esiste ancora una conoscenza chiara e
condivisa della dislessia in quanto caratteristica neurobiologica; il fatto che
essa abbia manifestazioni molto variegate
ovviamente non aiuta. Il secondo ostacolo è che, per cultura, siamo più
propensi a dare credito a posizioni che solletichino il nostro istinto
nostalgico (“una volta i dislessici non c’erano”, “sono solo bambini immaturi,
diamogli il tempo di crescere”) piuttosto che ad assimilare quanto ormai
acclarato dalla scienza. Accettare che un dislessico impari “da dislessico” è,
mutatis mutandis, come permettere a un mancino di scrivere con la sinistra.
Richiede un cambiamento culturale che credo sia agli inizi e in cui ho
fiducia. Tra l’altro, come
l’invenzione della biro ha permesso ai mancini di scrivere con la sinistra
senza sbavare l’inchiostro, così la tecnologia aiuta i dislessici: i sintetizzatori
vocali e gli audiolibri supportano la lettura, il correttore automatico
neutralizza disortografia e disgrafia, avere sempre con noi sul cellulare un
registratore, una calcolatrice e una macchina fotografica ci permette di
liberare la memoria dai compiti di puro immagazzinamento per dedicarci
all’elaborazione delle informazioni. Noi viviamo di strumenti “compensativi”
(andiamo al lavoro in auto, facciamo il bucato con la lavatrice...), solo a
scuola li consideriamo una facilitazione indebita, una concessione. Custodiamo
un retaggio culturale secondo cui la scuola buona è quella “difficile”. Invece
la scuola buona è quella in cui tutti imparano e tutti possono accedere agli
studi per cui si sentono più portati. Qualunque sia il loro stile di apprendimento.
Carolina Pernigo