#IlSalotto - Spiazzamenti. Dialogo sulla dislessia con Francesca Magni

Francesca Magni
È un libro intelligente, Il bambino che disegnava parole (ne aveva già parlato entusiasticamente Gloria qui). Un’opera che coniuga letteratura e utilità. Un manuale in forma narrativa, che riesce nell’intento tutt’altro che scontato di divulgare contenuti scientifici attraverso un racconto avvincente e ben scritto. È un romanzo che parla di dislessia senza pietismi, guardando in faccia una situazione sempre più diffusa, ma non sempre sufficientemente (o adeguatamente) conosciuta e riconosciuta. Ne parla in modo inconsueto, spiazzando le aspettative e le prospettive del pubblico. Se il dislessico eccelle nel ragionamento laterale, anche il romanzo affronta la tematica trasversalmente: a partire dalla narrazione in seconda persona singolare (un tu inclusivo che chiama immediatamente in causa il lettore, impedendogli di restare indifferente) alle testimonianze indirette delle forme che la dislessia può assumere; dalle appendici chiarificatrici e illuminanti allo sguardo obliquo con cui il problema d'apprendimento viene visto attraverso gli occhi di chi convive con il soggetto interessato. Teo è sicuramente il protagonista, ma non lo sono di meno la madre, il padre, la sorella Vivi. Sono in tanti a crescere e accettare sé stessi, alla fine dell’opera: se "scrivere guarisce e aiuta a perdonarsi", la morale del testo risiede in quanto concludono Francesca e Ludovica: "Ci siamo perdonati tutti". Grazie all'agnizione e all'attraversamento del dolore, la famiglia si ricompone intorno a una verità: che la dislessia è solo una delle infinite variabili dell'essere umano.
In quest'ottica, allora si può leggere l'istantanea finale, più che come semplice indice del passare del tempo che sana le ferite: 
“Adesso ci sono tutti. Centoquaranta. Diciotto persone mancine, nove con la erre moscia, una cinquantina con occhiali da vicino o da lontano, tre con i capelli rossi, trentadue uomini più calvi di quindici anni prima […]. Qualcuno è diventato ricco, qualcuno vegetariano, qualcuno buddista. […] C’è chi pensa di aver capito e chi no; chi ha avuto l’impressione, per un momento che le cose diventassero chiare, ma poi tutto si è offuscato di nuovo”
La suggestione del testo, ricchissimo in stimoli e contenuti, ci ha portato oggi a dialogare con l’autrice, la giornalista Francesca Magni, che si è prestata alle nostre domande con generosità e passione vera.

La storia che racconti coinvolge immediatamente per il tipo di focalizzazione e per il taglio che scegli di dare al testo: il protagonista è apparentemente Teo, ma ci si mette poco a realizzare che in realtà l'attenzione è rivolta all'intera famiglia e che ognuno dei componenti pesa in ugual misura nell'economia narrativa. La dislessia quindi non influisce solo sul singolo, ma ha delle importanti implicazioni relazionali. Quali? 
La dislessia, che è una neurovarietà come il mancinismo, comporta difficoltà nella lettura e a volte nell’ortografia, ma anche alcune caratteristiche particolari della memoria, che è eccellente nel trattenere storie ma fatica a fissare il lessico, ed è fragile nell’automatizzazione delle sequenze di parole o gesti (Teo per esempio non memorizzava i nomi dei mesi, non imparava a leggere l’orologio e ad allacciare le scarpe). La dislessia è un modo di funzionare del cervello di fronte all’apprendimento, ma coinvolgendo in generale l’approccio alla realtà, si configura come un vero e proprio modo di essere. La famiglia di Teo, che di dislessia non sapeva niente, deve rivedere i propri giudizi: Teo non è un ragazzino inspiegabilmente rabbioso, non è svogliato a scuola, non è pigro e con la testa fra le nuvole, non è un po’ bizzarro perché impara interi audiolibri a memoria e poi scambia trasfusione con trasferimento, o dice aggredevole anziché aggressivo... Teo ha una caratteristica congenita, che come tale è ereditaria. Attorno a lui altri adulti si accorgono di avere caratteristiche simili, ognuno in una propria combinazione e declinazione personale: il papà, un nonno, una nonna, uno zio... Questa scoperta apre gli occhi a tutti, spinge ogni membro della famiglia a una consapevolezza nuova. All’inizio non è facile riconoscere questa “diversità”, accettare l’agnizione. Ma attraversata una fase di crisi, proprio la dislessia diventa la ragione per cui i membri della famiglia ora si conoscono meglio e si vogliono bene in modo più autentico. Perché quando sai perché una persona si comporta in un certo modo, la tua relazione con lei non può che migliorare.

Il tuo libro si sofferma in particolare sugli ostacoli dell'apprendimento legati alla fase della preadolescenza e delle scuole medie. Come cambiano le cose crescendo? Prevale il miglioramento legato allo sviluppo di strategie di compensazione autonoma o la difficoltà connessa con l'aumento del carico di lavoro?
Crescendo, lo sviluppo di strategie di compensazione e una più chiara conoscenza che il dislessico acquisisce delle proprie caratteristiche lo aiutano ad andare avanti negli studi. Specie se si lavora per sostenere la sua autostima e la sua certezza di potercela fare, se si lavora per obiettivi frazionati e successivi, mostrandogli che i risultati possono arrivare. Nel caso di Teo, che ha scelto di iscriversi al liceo classico, le difficoltà intrinseche al tipo di studio sono oggettive, ma non sono insormontabili di per sé: è il modo in cui viene organizzato l’insegnamento - quale che sia la materia - a renderlo accessibile o inaccessibile a un dislessico. Faccio un esempio. Il dislessico fatica a ripetere una declinazione o una coniugazione verbale "a filastrocca" (vedi le fragilità nella memoria del lessico di cui si diceva), ma è in grado di approcciare il testo con logica e di tradurre; si tratta quindi di avere come obiettivo la traduzione e non la cantilena delle desinenze, si tratta di dare versioni e non compitini di verbi isolati dal contesto. Il dislessico potrebbe aver bisogno del supporto della morfologia più a lungo di un non dislessico, perciò occorre essere laici nell’uso di questo strumento. Inoltre beneficerà sicuramente di un metodo che gli insegni a usare i colori per identificare le parti del discorso e i casi: all’inizio l’insegnante può sottolineare, con colori predefiniti, nomi, aggettivi, verbi, poi sarà il ragazzo a farlo, finché smetterà di averne bisogno. Sono accorgimenti semplici, che tra l’altro aiuterebbero tutti gli studenti. I dislessici possono fare qualunque scuola, secondo la loro inclinazione personale e motivazione, a patto che si lavori creativamente e per obiettivi.

Quanto pesa, sul percorso di crescita del ragazzo dislessico, incontrare persone che conoscono e comprendono il problema, rispetto ad altri che invece si basano ancora sul sentito dire e su informazioni approssimative?
Le persone che il dislessico incontra sul suo cammino fanno la differenza! Possono portarlo a raggiungere gli obiettivi più alti come indurlo all’abbandono scolastico.
Capita ancora di sentire dire che la dislessia è una scusa delle famiglie benestanti per far promuovere i figli pigri; nella realtà la dislessia è causa di incomprensione, disistima, bullismo (subito e agito), abbandono scolastico, difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro e devianza sociale. Studi nelle carceri del Regno Unito parlano di più del 50% di dislessici tra i detenuti; in Italia studi ufficiosi in alcuni carceri minorili parlano di percentuali analoghe. Conoscere la dislessia, dunque, è un dovere di tutti. È un tema che nella scuola trova il suo punto di incaglio, ma va ben oltre: ha a che fare con i diritti umani ed è potenzialmente un problema sociale.
Oggi molti insegnanti seguono corsi sulla dislessia ma la cosa è lasciata alla loro iniziativa o a quella dell’istituto in cui lavorano. Io credo che la capacità di individuare i segnali della dislessia dovrebbe essere requisito indispensabile per ottenere l’abilitazione all’insegnamento. Un medico non può curare i pazienti senza conoscere l’anatomia e così un insegnante non può essere efficace nel suo mestiere se non conosce tutte le vie che portano all’apprendimento - quelli che oggi si iniziano a chiamare stili di apprendimento e riguardano tutti, non solo i dislessici.

Tempo fa ho letto un memoir di Philip Schultz, poeta americano che ha vinto il premio Pulitzer per la poesia e che racconta della propria dislessia, scoperta solo in età adulta, nel momento in cui il figlio ha iniziato ad avere difficoltà scolastiche (con un itinerario per certi versi simile a quello descritto nel tuo libro). Il suo scritto fa emergere bene lo stretto rapporto che c'è tra dislessia e poesia, tra dislessia e creatività. Considerando che la recezione sociale e scolastica dei disturbi dell'apprendimento tende a metterne in evidenza soprattutto gli aspetti problematici, quali pensi che siano invece le peculiarità e i punti di forza del ragazzo dislessico?
Se la scuola fa emergere soprattutto gli aspetti problematici della dislessia è perché il modo di insegnare è spesso in collisione con le caratteristiche del dislessico (ogni materia diventa una filastrocca da imparare a memoria, si fanno quiz e prove a tempo, c’è un’impostazione competitiva dello studio, lezioni frontali, il lavoro di imparare si svolge a casa da soli anziché in classe con l’insegnante...). Ma chi ha dislessici in famiglia conosce la loro creatività: nel disegno, nelle costruzioni e nelle arti manuali o nella musica; mio figlio scrive temi bellissimi, il figlio (dislessico) di un’amica scrive poesie... Senza cadere nella retorica perniciosa del dislessico genio, ognuno ha i suoi punti forza. La neurologa comportamentale Marilù Gorno Tempini del Dyslexia Center di San Francisco ha spiegato che la dislessia potrebbe addirittura essere un tentativo dell’evoluzione di sperimentare un cervello diverso. I dislessici in genere hanno un approccio olistico ai problemi, che sanno vedere nella loro globalità e al tempo stesso ridurre all’essenza. Di mio figlio e di mio marito, entrambi dislessici, ammiro la capacità di sintesi, di cogliere l’essenza delle questioni, di elaborare soluzioni non ovvie, anche attraverso percorsi che il senso comune giudicherebbe bizzarri. Il dislessico, diciamo noi a casa, è uno che guarda il buco al posto della ciambella. 
Secondo alcuni studi, la dislessia è associata anche a una grande capacità di immedesimazione nel punto di vista altrui, ragione per cui ci sono molti dislessici tra i politici e gli attori, oltre che tra gli imprenditori di successo. Nella vita scolastica il ragazzo dislessico è senz’altro abituato a cercare strategie alternative per raggiungere obiettivi che i suoi compagni raggiungono con facilità: questo lo rende più fragile sul fronte dell’ansia e dell’autostima, ma più forte nel problem solving e nell’elaborazione di strategie fuori dal comune.

Un elemento che ho trovato particolarmente interessante, nel discorso che porti avanti attraverso e oltre la narrazione della storia di Teo, è la speranza che in futuro non ci sia più la necessità di certificare la dislessia, essendo questa semplicemente una delle possibili e infinite varianti dell'essere umano. Tra parentesi, condivido appieno l'idea, dato che per esperienza personale ho constatato che l'associazione dislessia=andamento scolastico negativo/difficoltà nelle materie umanistiche è un luogo comune non necessariamente vero. Quali sono attualmente gli ostacoli e le resistenze maggiori alla diffusione di questo pensiero?
Credo che gli ostacoli siano essenzialmente due. Il primo è che non esiste ancora una conoscenza chiara e condivisa della dislessia in quanto caratteristica neurobiologica; il fatto che essa abbia  manifestazioni molto variegate ovviamente non aiuta. Il secondo ostacolo è che, per cultura, siamo più propensi a dare credito a posizioni che solletichino il nostro istinto nostalgico (“una volta i dislessici non c’erano”, “sono solo bambini immaturi, diamogli il tempo di crescere”) piuttosto che ad assimilare quanto ormai acclarato dalla scienza. Accettare che un dislessico impari “da dislessico” è, mutatis mutandis, come permettere a un mancino di scrivere con la sinistra. Richiede un cambiamento culturale che credo sia agli inizi e in cui ho fiducia. Tra l’altro, come l’invenzione della biro ha permesso ai mancini di scrivere con la sinistra senza sbavare l’inchiostro, così la tecnologia aiuta i dislessici: i sintetizzatori vocali e gli audiolibri supportano la lettura, il correttore automatico neutralizza disortografia e disgrafia, avere sempre con noi sul cellulare un registratore, una calcolatrice e una macchina fotografica ci permette di liberare la memoria dai compiti di puro immagazzinamento per dedicarci all’elaborazione delle informazioni. Noi viviamo di strumenti “compensativi” (andiamo al lavoro in auto, facciamo il bucato con la lavatrice...), solo a scuola li consideriamo una facilitazione indebita, una concessione. Custodiamo un retaggio culturale secondo cui la scuola buona è quella “difficile”. Invece la scuola buona è quella in cui tutti imparano e tutti possono accedere agli studi per cui si sentono più portati. Qualunque sia il loro stile di apprendimento.


Carolina Pernigo