di Carlo Ginzburg
Adelphi,
2015
pp.
213
€ 40
La lettura di
Carlo Ginzburg è una faticosa
passeggiata di piacere. Non comprate perciò questo libro per curiosità, il
prezzo peraltro non è esattamente un invito all’acquisto. Ma se lo farete e
soprattutto se lo leggerete, l’arricchimento del vostro bagaglio culturale sarà
garantito dalla manifesta superiorità dell’autore. Perché Carlo Ginzburg, il
“professor Ginzburg” è tra i pochi, anzi pochissimi, in Italia che può
permettersi di “professare” ovvero “dichiarare apertamente”. Mi pare
inevitabile la pubblicazione di Adelphi di questi cinque saggi legati all’iconografia politica, in particolare ai
concetti espressi nel titolo. A dimostrazione di che potente stimolo siano,
nella seconda parte di questa mia modesta recensione intendo soffermarmi su un
aspetto. Qualcosa che va controcorrente.
Prima dei saggi,
significativamente definiti anche “esperimenti”, c’è comunque la prefazione in
cui Ginzburg ricorda che con essi estende il concetto di Pathosformeln, formule di pathos, allo studio di immagini moderne viste come
strumenti di potere. Immagini moderne che, tuttavia, presentano «radici
antiche» e dunque sarà interessante capire come quelle radici siano state
rielaborate. Pathosformeln è un concetto di Aby Warburg. Questo
storico dell’arte, nel 1905, teorizzò il recupero, nel Rinascimento, di
archetipi «della gesticolazione appassionata» tratti dall’antichità pagana. Ma
la «gesticolazione appassionata» delle Pathosformeln è soggetta a una
profonda ambivalenza. Un esempio? Una Maria Maddalena di Bertoldo di Giovanni
che viene raffigurata con movenze di una baccante. Se non fosse che la Maddalena è dinanzi al
Cristo crocifisso per cui il suo atteggiamento non sarà certo orgiastico ma di
grande sofferenza: gesti simili ma significato rovesciato. Ginzburg chiama
questo procedimento «inversione energetica».
Le Pathosformeln
entrano subito in gioco nelle decorazioni di una coppa in argento dorato
prodotta ad Anversa nel Cinquecento (primo saggio) che diventano funzionali a
un messaggio politico adatto a chi voleva lavarsi la coscienza nonostante i
massacri prodotti ai danni degli indios delle Americhe. Le formule artistiche
che si ritrovano nella coppa, infatti, sono desunte dalla classicità,
arrivarono ai contemporanei grazie a mediatori più prossimi e servirono a
sublimare la ferocia della conquista spagnola. Con uno stratagemma felicissimo:
non c’è un conquistadores tra tutte le figure, anzi queste sono ispirate da
rappresentazioni di mondi mitologici tipici dell’antichità. È chiaro che la violenza viene così totalmente
trasfigurata e fatti storici pericolosamente vicini, qualcuno potrebbe pur
sempre prendere coscienza della loro reale portata, diventano innocui se
scagliati lontano in una dimensione a-temporale.
Questa vaghezza, inaspettatamente, si può
ritrovare perfino in “Guernica”, forse l’opera più conosciuta di Picasso
(quinto saggio). È incredibile come questo quadro sia diventato un’icona
dell’antifascismo senza che di fascisti ce ne sia traccia. Come gli spagnoli
nella coppa. E cosa c’è allora in
“Guernica”? Picasso confonde le acque con un talento istrionico fantastico:
sì, ci sono esseri umani e animali legati dal filo della tragedia ma se a un
certo punto l’artista dirà che il toro rappresenta la brutalità e il cavallo il
popolo, pochi anni dopo cambierà versione: il toro è un toro e il cavallo un
cavallo. La genesi dell’opera, d’altronde, documentata dalle fotografie
scattate da Dora Maar, all’epoca amante dell’artista spagnolo, mostra profondi
ripensamenti, in ossequio al principio picassiano per cui «un quadro è una
somma di distruzioni».
Altrettanto
moderna, novecentesca, è l’immagine del quarto saggio sul manifesto inglese del 1914 che ritraeva il generale Kitchener che
esortava i giovani britannici a partire volontari per la Grande Guerra.
Anche lo zio Sam che punta il dito dicendo I want you ne è
un’imitazione. Una delle tante. «Anche un messaggio che sembrerebbe evidente e
trasparente, come la propaganda, dev’essere decifrato» dice Ginzburg e la
ricerca passa attraverso Plinio, Nicola Cusano, Hans Memling, Michelangelo,
Caravaggio, George Orwell. Anche in un poster pensato per incitare all’arruolamento
possiamo ritrovare «dispositivi visuali inventati dai pittori ellenistici».
E veniamo alla
suggestione citata in premessa, che emerge dal secondo e terzo saggio, dedicati
rispettivamente al “Leviatano” di Hobbes e al quadro di David “Marat all’ultimo respiro”.
In questi due esperimenti, il ruolo centrale di terrore e venerazione viene
affrontato con particolare sottigliezza: nel saggio dedicato a Hobbes, in
particolare alla copertina del “Leviatano”, partendo dalla traduzione,
compiuta dal filosofo inglese, di un passo de “La guerra del Peloponneso” di Tucidide,
nel saggio dedicato al quadro di David richiamando «le interpretazioni che
leggono in chiave politica l’intreccio di elementi classici e di elementi
cristiani». Non entro a fondo di questi due saggi ma vado al concetto che mi
preme e che riguarda la secolarizzazione,
ovvero il processo di progressiva autonomia delle istituzioni politico-sociali
e della vita culturale dal controllo e dall’influenza della religione e della
chiesa. A questo punto, seguendo Ginzburg, sarebbe opportuno dire: presunta secolarizzazione.
È abbastanza
comune ritenere Thomas Hobbes il padre della scienza politica moderna, il primo
grande tentativo di sostituire alla concezione tradizionale
aristotelico-tomistica nuove coordinate teoriche e la vera svolta del filone
giusnaturalistico. Ora, se è vero che le leggi di natura sono svincolate dalla
volontà divina e che lo Stato scaturisce dalla ragione degli individui con
carattere funzionale piuttosto che universale-normativo, premessa
secolarizzante, Ginzburg ci dice che la secolarizzazione non è un fatto
divisivo tra la sfera civile e la sfera religiosa. Anzi, è necessario parlare
di «invasione». E a entrare nel campo “avversario” è stato l’elemento “laico”.
Ginzburg offre le prove: per Hobbes all’origine dello Stato c’è la paura,
quella di ogni uomo di essere preda dei suoi simili, e il risultato finale di
questo sentimento è la volontaria privazione del diritto di auto-governarsi a
favore dello Stato-Leviatano. Verso cui si prova, riconoscenti, soggezione e
reverenza. Lo Stato, per legittimarsi,
ha bisogno dell’arma principale della religione, la paura per l’appunto, che
tiene gli uomini in uno stato di soggezione ed è l’unico strumento per
indirizzare le loro azioni al bene comune. Lo Stato moderno, in conclusione,
non si oppone ma prende a prestito un qualcosa già presente nel campo della
religione, invadendolo. Ecco spiegate, mutatis mutandis, le reazioni accalorate
di quest’ultima. Riflettendo, in effetti, sul respiro che Hobbes dà al potere,
viene in mente proprio l’aggettivo “assoluto”. Un qualcosa che si innalza sopra
gli individui, che concentra tutti i loro poteri, direi perfino tutte le loro
forze. Qualcosa di illimitato. Sembrano attributi di Dio.
Anche dall’esame
del quadro di David e dallo studio del culto di Marat, Ginzburg trova conferma
di questo affermato: «la
Repubblica nata dall’abbattimento della monarchia di diritto
divino cerca una legittimità supplementare invadendo la sfera del sacro». Per Robespierre non è vero che non esisteva
un Dio assoluto, anzi era un devoto della Dea Ragione. Sostituiva, non
cancellava. Invadeva con la politica un ambito preesistente, plasmato dal
cristianesimo il quale, a sua volta, per affermarsi si era appropriato di
contenuti e forme preesistenti. La storia senza radici ma come successione di
mimesi.
Post scriptum:
se la secolarizzazione è un’invasione, della politica nel terreno della
religione, se a questa tesi abbiniamo quella di altri autori, cito Umberto
Galimberti, per cui oggi c’è un processo diametralmente opposto, non è che
l’idea di Ginzburg esce rafforzata? Se l’accusa dei laici, alla quale mi
accodo, è che il cristianesimo si è
fatto storia rinunciando totalmente a una dimensione sacra a favore di
elaborazioni etiche riguardanti ciò che è bene e ciò che è male - Dio si è
fatto uomo anche troppo entrando di prepotenza nella morale per condizionare
ambiti che potrebbero essere risolti dalle leggi umane - non avrà agito così per
reagire all’occupazione del proprio campo?
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