Il 2017 di Marco è stato
a targhe alterne
Dovevo aspettarmelo fin dall'esordio.
Conquistato dalla trilogia di Holt, ho cominciato il 2017 con Le nostre anime di notte di Kent Haruf (NNE) e se là c'era il respiro ampio della narrazione (e della natura), in questo quarto romanzo è rimasto, di tutto ciò, un debole riverbero. Ma, mi sono detto, ci sono delle attenuanti, tipo la sopravvenuta morte dell'autore praticamente in corso d'opera.
Invece i 12 mesi trascorsi non hanno decollato e come prova provata mi sono sfogliato la mia annuale agenda libresca dove mi appunto tutto. E allora la costante, peggio di Planck, è stata: grandi attese per libri da 6/6,5.
Su tutti cito: il premio Strega Le otto montagne (Einaudi) di una leggerezza disarmante (in Toscana abbiamo un termine adattissimo per rendere l'idea ma non so se si usa altrove ed è "lellerino") e Patria di Aramburu (Guanda). Ora, siccome questo lo ha recensito la mia amica Gloria Ghioni, nonché direttore di scena e dunque potenzialmente in grado di cacciare il sottoscritto, bisogna specifichi qualcosa: a forza di salti indietro e salti in avanti nella costruzione della trama, è come se si confondessero le acque e l'inerzia della lettura subisse delle impasse. Senza considerare che alcuni particolari e fatti della vita dei sei protagonisti appaiono riempitivi che non aggiungono alcunché. Un capitolo e muoiono.
Quindi cosa salvare? Due autentiche perle. Sarà un caso ma si tratta sempre di Adelphi: Andrej Belyj con Pietroburgo, la Palmira del Nord e il suo teatrino di varietà metafisico, e Omar di Monopoli con Nella perfida terra di Dio. Per quest'ultimo, che è il più bel libro italiano dell'anno, non a caso incandidato - si dice? - a premi vari, rinvio alla mia recensione.
Marco Caneschi