in

#CriticaNera - James Ellroy, "La collina dei suicidi"

- -

 La collina dei suicidi
(Suicide Hill, 1985)
di James Ellroy

traduzione dall'inglese di Marco Pensante
Oscar Mondadori

pagine 284
€ 8

Vide che il tipo aveva una strana spilla attaccata al risvolto della giacca e una Python 357 nella destra, e capì che stava per morire. Cercò di farsi venire in mente qualche battuta adatta, ma riuscì a dire solo: «Era nata per spezzare cuori»: Stava per dire: «E io la amavo», ma arrivarono prima le tre pallottole della Magnum.

Duane Rice è un criminale di scarso peso, che durante un soggiorno nella prigione della Contea di Los Angeles escogita un piano per fare un mucchio di soldi. Lloyd Hopkins è un detective del Los Angeles Police Department, che i superiori stanno indirizzando sulla via della rottamazione a causa dei metodi di lavoro poco ortodossi e piuttosto imbarazzanti per il Dipartimento. Attorno ad essi gravitano una serie di altri personaggi che contribuiscono allo spiegamento della trama di questo romanzo hard boiled moderno, traboccante di droga, violenza verbale e fisica e, soprattutto, che presenta un mondo ai confini della distopia. 

Delinquenti di piccolo cabotaggio, una ragazzina viziata aspirante rockstar con il cervello bruciato dalla cocaina, poliziotti violenti, corrotti ed esauriti animano le pagine di questo Suicide Hill, uno dei primi romanzi di James Ellroy, scrittore allora poco conosciuto ma impegnatissimo nella scalata verso l’olimpo dei re del noir. Vetta che avrebbe raggiunto nel 1987 con La Dalia Nera, uno dei suoi capolavori al pari di LA Confidential, Il sangue è randagio, Sei pezzi da mille, Perfidia, opere in cui lo stile dell’autore si rivelerà caratteristico e inconfondibile, lavori di livello altissimo che “staccano” decisamente dalla produzione di questo primo periodo. 

Il modo migliore per apprezzare pienamente la narrativa di James Ellroy credo sia seguirne la produzione in modo cronologico, non solo perché la "Trilogia Americana" e la "Tetralogia di Los Angeles" questo richiedono, ma soprattutto per poter assistere alla maturazione dell’Ellroy scrittore, particolarmente evidente nei primi cinque-sei romanzi che, in un certo senso, preparano il terreno alla strepitosa produzione successiva.

Questo non significa che La collina dei suicidi sia un brutto romanzo, tutt’altro: ci sono infatti la maggior parte dei presupposti che avrebbero in seguito costituito la cifra caratteristica di questo scrittore visionario, imprevedibile e affascinante. Personaggi complessi e sofferti, confini fra buoni e cattivi, fra bene e male estremamente sfumati, ambientazione in una Los Angeles metropolitana che offre la peggiore prospettiva di sé, una narrazione che parte dai diversi protagonisti e procede in modo piatto ma solo all’apparenza, come un fuoco di braci, per poi subire un’impennata repentina quando tutti gli elementi convergono verso un punto di raccordo.

In cosa, dunque, questa Suicide Hill si differenzia dai successivi lavori al cui stile Ellroy ci ha abituati? Difficile dirlo, perché stiamo pur sempre parlando di un romanzo di alto livello; quello che tuttavia non si trova, in questo e negli altri lavori che precedono La Dalia Nera, il romanzo che dà inizio alla “Tetralogia di Los Angeles”, è la commistione fra finzione e realtà storica. In altri termini, una delle caratteristiche tipiche della narrazione di James Ellroy è il saper calare la trama entro la cornice storica del periodo in cui queste si svolgono, popolando i suoi romanzi di personaggi reali, dal capo del LAPD William Parker in Perfidia al gangster Mickey Cohen in LA Confidential, addirittura alla famiglia Kennedy in American Tabloid [qui la recensione].
L’inserimento di queste figure reali, che vanno ad affiancarsi ai protagonisti frutto della fantasia autoriale, avviene – per ammissione dello stesso Ellroy – senza la pretesa di riscrivere eventi reali ma in seguito a ricerche storiche minuziose e precisissime, che gli consentono di darne un’interpretazione personale alla luce di tutti gli elementi disponibili, pur rimanendo nell’ambito dell’invenzione romanzesca. In più, questo insieme di finzione e realtà consente l’arricchimento delle dinamiche narrative che acquisiscono una complessità notevole e permettono un ampio sviluppo, che si traduce anche in numeri di pagine ben superiori alle sei-settecento, nessuna delle quali peraltro risulta inutile o ridondante.

Un ulteriore aspetto degno di analisi è il periodo storico in cui i lavori più noti – e meglio riusciti – di Ellroy hanno luogo, che va dagli anni Quaranta agli anni Sessanta. Ecco, agganciando la propria verve narrativa alla realtà storica dell’America di quegli anni (e alle proprie vicende autobiografiche) Ellroy riesce a dare il meglio di sé, tanto da non risultare altrettanto convincente nel narrare storie ambientate in epoca contemporanea.

In definitiva, ne La collina dei suicidi troviamo un Ellroy minore, non ancora al massimo della potenza espressiva, tuttavia di gran lunga superiore alla produzione media della narrativa noir contemporanea. Come dire, le premesse c’erano proprio tutte. 

Stefano Crivelli