Mediterraneo
Lucca, 18 novembre - 10 dicembre;
biglietto intero € 20,00; ridotto 17,00.
Inaugurata il 18 novembre e destinata a durare fino al 10 dicembre, la nuova edizione di Photolux, la biennale di fotografia ospitata dalla città di Lucca, è dedicata al Mediterraneo. Bacino di culture e civiltà, luogo di drammi e conflitti, il Mediterraneo è un soggetto diversamente declinabile e potenzialmente inesauribile, che gli artisti selezionati hanno saputo interpretare con sensibilità. La rassegna riesce quindi nel non banale intento di mostrare, di una realtà articolata e complessa, tutte le ambiguità e i nodi irrisolti. D'altronde è proprio nel mare nostrum (ma "nostrum" solo fino a un certo punto) che i due fluidi vitali per eccellenza, l'acqua e il sangue, si incontrano in un'attualità spesso dolorosa, che rende l'argomento delicato e bollente al tempo stesso. Coraggiosa dunque la scelta dei curatori, che anche quest'anno rischiano e non deludono, come non avevano deluso per l'edizione 2015, articolata intorno al complesso binomio sacro/profano. Sventato in partenza il rischio del moralismo grazie a una ricerca attenta di varietà di contenuti e linguaggi espressivi, Photolux 2017 si dispiega nei palazzi storici e nelle chiese della città toscana, invitando il visitatore a creare un proprio, personale itinerario di scoperta, da cui si esce con una prospettiva inedita su qualcosa che si riteneva (superficialmente, arrogantemente) di conoscere.
Nick Hannes (collage di C. Pernigo) |
Un primo, ma detonante impatto con la realtà del festival si ha con Nick Hannes, artista belga che rilegge il Mediterraneo come luogo di contraddizioni kitsch, debordante di corpi e di consumi, di gente ottusa e stordita dai non luoghi quando a pochi metri di distanza si consuma la tragedia. Due sponde a cui corrispondono due universi, somiglianti per forme e colori, talvolta per strutture edilizie, opposti per destino e stili di vita. Una realtà osservata senza pregiudizi, ma che risulta proprio per questo tanto più disarmonica, disturbante per la nostra quieta e agiata vita occidentale. Iniziano lì, nel seminterrato che ospita l’esposizione, quelle domande assillanti e fastidiose che ti perseguiteranno per l’intera durata della visita: quanto è onesto il nostro sguardo sulle cose, quanto distorta e parziale la nostra prospettiva consueta?
Contrario e complementare, separato da Hannes da una rampa di scale e una diversa visione del mondo, Bernard Plossu studia del Mediterraneo i vuoti, i silenzi e le attese, la metafisica e la poetica, con atmosfere surreali e stranianti rispetto alle quali ci si sente spaesati e al contempo pacificati. Nelle geometrie taglienti, nei contrasti tra luci e ombre, tra pieni e vuoti, tra passato e presente, nel tentativo di cogliere "l'ora immobile" (Tabucchi), si riconosce l’impronta del miglior De Chirico, aggiornato con un linguaggio espressivo tutto contemporaneo. Le distanze si ricompongono così, provvisoriamente, in una quiete comune e suggestiva, riconoscibile in similari cieli pallidi ed intonaci scalcinati e opachi.
Albert Watson, Aicha Haddaoui, On the road to Marrakesch, 1997 |
Un bianco e nero, quello di queste immagini, che ha poco a che spartire con quello denso e vibrante, mai puramente descrittivo, di Albert Watson, che nella sua serie “Maroc”, ha voluto rendere del paese omaggiato la sensualità e la passione, gli abitanti dagli occhi profondi e gli scorci drammatici.
Ad un Marocco differente, meno esotico e più umano, per quelle interferenze della fantasia che una modalità espositiva come quella di Photolux incoraggia e alimenta, rimanda anche la mostra della fotografa franco-marocchina Leila Alaoui. Ospitata nella chiesa di Santa Caterina, solo apparentemente decadente (ma con quanta bellezza imprevista si spalanca il soppalco che affaccia sulla cupola), la rassegna coniuga l’arte alla storia umana dell’artista. Per Alaoui la diversità era una ricchezza, una risorsa. Nelle sue foto ritrae individui con culture differenti e sguardi uguali, luminosi e intensi. Lei ci credeva, nell'umanità che immortalava, anche in quella che l'ha uccisa, a trentatrè anni, in un attentato in Burkina Fasu, dove era andata con Amnesty International.
Leila Alaoui (foto di C. Pernigo) |
Filo comune alle diverse esposizioni è, a ben guardare, il tema dell’identità: quella, delle genti mediterranee, che è composita, sfaccettata, poliforme. Che riguarda il diverso modo di intendere l’essere umano in generale, l’uomo e la donna in particolare. Sulla complicata affermazione dell’identità femminile nei paesi arabi riflette ad esempio Rania Werda, che ritrae figure di giovani che si offrono alla fotocamera con i volti velati ma i corpi solidi, dirompenti, a simboleggiare la ricerca di un ruolo e una posizione nella storia, tra tradizione e modernità. O ancora la fotografa Ekaterina Sevrouk, per cui l’identità diventa un qualcosa da ridefinire necessariamente dopo uno sradicamento: per i giovani africani richiedenti asilo in Austria, ma anche per l’Europa, chiamata a rivedere le proprie tradizioni, a risemantizzare una cultura che si apre a un nuovo tempo (ecco allora il romanticismo che si orienta verso nuovi modi di intendere la relazione del soggetto con la natura, e il concetto di alienazione e spaesamento).
Rania Werda (foto di C. Pernigo) |
Il tema dell’esodo, che ci si sarebbe aspettato predominante, è in realtà affrontato in maniera esplicita in un’unica mostra I-ΣMIGRAZIONI. Solo una, quindi, ma forse la più ampia, sicuramente la più articolata ed emotivamente coinvolgente. Una mostra di quelle che ti fanno venire voglia di trascinarci per l’orecchio qualcuno che conosci, per fargli sbattere la faccia contro l’eloquenza delle immagini, la sconvolgente durezza delle cifre. Per fargli vedere le straordinarie heat maps di Richard Mosse, realizzate con l’ausilio di una fotocamera termica di uso militare che rileva il calore del corpo, attraverso un paradossale rovesciamento del suo scopo; perché provi una sensazione di dejà vu nel riuscito confronto tra le migrazioni di oggi e di ieri: i barconi contro il ponte di terza classe, un’analoga esistenza accampata e disperata.
© Giulio Piscitelli, Mar Mediterraneo, 2 aprile 2011 |
Non solo il presente, ma anche il passato viene celebrato dal festival. Tra tutte, si ricorda la retrospettiva su Jacques Henri Lartigue, che offre uno spaccato di un'epoca e di un'intera classe sociale, di viveur benestanti, amanti del divertimento, delle donne, di un'esistenza comoda e lussuosa. Instagrammer ante tempora, collezionista di momenti, a Lartigue interessa dimostrare che lui c'era, testimone acuto e non pedante della vita del suo tempo, di cui coglie aspetti e tagli non scontati. Meravigliosi nei suoi scatti i corpi plastici in movimento, le donne dalla violenta passionalità (varrebbero il prezzo del biglietto i soli ritratti di Renée).
Tanta varietà di scelta potrebbe confondere, invece appaga. L’incremento di conoscenza va di pari passo con la sollecitazione del pensiero, l’acquisizione di spunti di riflessione, il piacere estetico per un’esibizione artistica di alto livello. La fotografia parla un linguaggio universale che ha il potere di rendere trasparenti verità prima confuse o soltanto sospettate, di creare connessioni forti e insospettabili. Di regalare al già poliedrico concetto di Mediterraneo ulteriori possibilità interpretative.
Carolina Pernigo
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