Storia di Roque Rey
di Ricardo Romero
Fazi editore, 2017
Traduzione di Vittoria Martinetto
pp. 526
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
«Gradirei che mi dicesse qualcosa, signor Rey. Capirà che le cose non sono così chiare e io devo prendere delle decisioni».
Quanto mi ci rivedo in questa frase! Quanto vorrei trovarmi faccia a faccia con Roque Rey, il protagonista dell’ultimo romanzo di Ricardo Romero. Vorrei chiedere a Roque di parlare con me, di spiegarmi. Ma temo che, proprio come accade al direttore dell’Obitorio a pag. 287, anche io mi sentirei rispondere «non ho niente da dire».
Il fascino di Roque, del resto, è in questo: anche se seguiamo la sua vita passo dopo passo, dal concepimento alla misteriosa scomparsa, per oltre 500 pagine; anche se noi lettori siamo gli unici a conoscerne ogni mossa, ogni pensiero, mentre tutti gli altri personaggi rimangono spettatori di una parte della sua recita; nonostante questo, rimane un dubbio: chi è Roque Rey? Cosa vuole dirci? Perché va in giro di notte indossando le scarpe dei morti?
Argentina, fine anni Cinquanta. Una donna si scopre atroci dolori al basso ventre. “Mi è scoppiata una cisti”, pensa. Invece no: è Roque Rey che bussa alla porta del mondo. Un bambino inaspettato e non desiderato, che dopo un paio di mesi viene ceduto in adozione alla cattolicissima zia Elsa e a suo marito Pedro. Zio Pedro, col suo silenzio e il suo dare le spalle al mondo, per Roque è uno strano modello paterno. La sua morte improvvisa spinge Roque alla fuga: un errare che comincia nell’adolescenza e non avrà mai fine.
Roque raggiunge i punti più disparati dell’Argentina con diverse, evanescenti compagnie. Prima il prete Umberto, “un parricida chiamato padre”. Poi i Los Espectros, una strana band di cumbia tenuta insieme dall’assenza di alternative, che insegnerà a Roque l’arte di camminare a tempo di musica. Un primo, apparente stop è a Buenos Aires: qui Roque vive con Mariana, ma sfoga il suo bisogno di fuga passeggiando nelle scarpe dei morti. È invece Natalia, infantile e perversa, a trascinarlo a Diamante, nelle braccia di Inés. Sullo sfondo, la storia politica dell’Argentina scorre come il Paranà, impetuoso e incessante, lambendo Roque durante casuali, solitarie passeggiate.
Roque Rey, quindi, è un camaleonte: e balla se i Los Espectros lo vogliono ballerino, e accudisce se Mariana gli affida sua madre malata; e diventa un ubriacone insieme a Marcos Vryzas, un marito se glielo chiede Natalia. Roque Rey è ogni morto che gli capiti a tiro quando lavora all’Obitorio: basta indossare le scarpe di un cadavere per seguirne gli impulsi, realizzarne i sogni, i desideri incompiuti.
Roque Rey cresce senza riferimenti solidi, perciò non vuol essere un riferimento per nessuno. L’unico suo impulso vitale è la fuga: il camminare eterno, in giro per il mondo o in cerchio per i vicoli di Buenos Aires, con il rumore della sua musica, dei suoi pensieri contorti.
Alcuni hanno ascritto il romanzo di Ricardo Romero al filone del realismo magico (lo stesso di García Márquez, per intenderci). Per me è una forzatura: l’inverosimile, caratteristica predominante del mondo di Roque, è qualcosa di diverso dal magico. Inoltre manca quella vitalità che trovo nei “magici” latinoamericani. Sarà perché il costante dialogo tra vivi e morti rende il tutto un tantino lugubre.
Dovendo fare un paragone, devo confessare che per tutta la durata del romanzo ho avuto l’impressione di rivivere Rayuela, l'antiromanzo di Cortazar: con più spirito e ironia, all’inizio. Ma la storia, dopo i primi frizzanti capitoli, si ingarbuglia come una ragnatela. Si attorciglia nel tempo e nello spazio, come la Rayuela: sul piano temporale, la storia di Roque procede in modo lineare, ma è interrotta dai ricordi e i flashback dei vari compagni di vita (padre Umberto con le sue lettere mai inviate, il ciabattino canta-storie, il vedovo Edgardo Aragone). Sul piano spaziale, invece, ci pensa Roque stesso: il suo eterno errare avanti e indietro, su e giù per l’Argentina, è quanto di più umano e più terribile possiamo immaginare. L’anelito alla fuga lo chiama, usando le onnipresenti scarpe dello zio Pedro come centralino. Roque, così estraneo a ogni convenzione da non avere mai avuto un documento, asseconda l’istinto: in barba ai vincoli di affetto, lavorativi, Roque parte. Parte ma non scappa: torna sempre al punto di partenza, i suoi ricordi, le vecchie scarpe. Ed ecco la Rayuela.
Il libro in realtà è un concentrato di citazioni. Non può sfuggire la menzione di Kafka e della sua Metamorfosi: Roque è un animo bambino in un corpo da adulto, un disadattato, inetto alla vita e inopportuno con la morte. Evidentissimo il richiamo a Lolita, nel personaggio chiave di Natalia. Ma anche questa citazione è sottosopra: è Natalia il mostro, un’adulta in un corpo perennemente fanciullesco, una spietata cospiratrice dagli occhi limpidi, di un azzurro innocente.
«Sono un mostro, Roque. Perché, cosa me ne faccio della mia intelligenza unica, se la mia bellezza precede tutto, arriva sempre per prima dovunque, si perfeziona di giorno in giorno senza che io faccia nulla, risolve i problemi prima che sorgano?»
Mentre Roque, lentamente, cresce come fuori dal mondo, la Storia, che è donna, «periodicamente, a intervalli, sanguina». Scontri, omicidi, retate irrompono a tratti nella vita di Roque: così come «la barba spuntava e scompariva dalla sua faccia senza che la sentisse come una propria decisione», così la Storia porta all’improvviso il suo carico di violenze e di morti, e di scarpe e di impulsi.
Si può fermare l’errare di Roque? A un certo punto accade qualcosa: è l’irrompere dell’amore. Un amore improvviso, non voluto, sorto dalla bugia e dalle scelte di qualcun altro, di nuovo.
Chi è Roque Rey? È un neonato abbandonato che, fattosi grande, rifiuta i legami stabili. È un ragazzo tradito dallo zio Pedro, che ha osato morire senza preavviso, senza risposte, senza mostrargli una sola espressione di rabbia o di gioia, senza lezioni di vita. Ecco perché Roque Rey scappa con le sue scarpe da morto; ecco perché «Roque Rey, come un serpente che cambia pelle, abbandona insieme a loro la possibilità di consumarsi, di ostentare un odore, di essere artefice di ricordi futuri».
Francesca Romana Genoviva