L'ultima estate e altri
scritti
di Cesarina Vighy
Fazi, settembre 2017
pp. 318
€
18
Un libro difficile questo
di Cesarina Vighy in cui il tema principale è la malattia. Descritta
ora come una compagna di vita, ora come una condizione atroce,
Cesarina Vighy usa uno stile pungente e sarcastico, ma pregno di
amaro verismo e dolorosa consapevolezza. L'ultima estate e altri
scritti è il racconto dell'ultimo anno di vita dell'autrice,
bloccata a letto da una cronica e irreversibile malattia che le
strappa via tutti i sensi, meno quello dell'umorismo a cui la Vighy
tiene più di tutti. Si sente fortunata a non aver perso almeno il
senso dell'umorismo, l'unico che consiglia a tutti i malati come lei
di non mettere da parte, di non perdere e anzi di allenarlo ancor più
nel dolore. Una lettura straziante nonostante l'ironia cruda, sempre
accompagnata dalle considerazioni sulla propria triste condizione. Il
libro si divide in tre parti: la prima è un racconto dell'ultimo
anno di vita della scrittrice, la seconda è una raccolta di email
che Cesarina Vighy scrive a sua figlia e ad alcuni amici nel cuore
della notte e la terza parte è rappresentata da una raccolta di
poesie dell'autrice.
Sto spesso più di là che di qua e comincio a varcare quel confine tracciato tempo fa da mio marito: “Non restare più della metà del tempo di là”. La legge del fifty-fifty.
Devo confessare che a volte lo passo quel fifty e arrivo al sessanta, al settanta per cento, magari aiutata da qualche pasticca di sonnifero che ho trafugato via via, più qualche sorsata di whisky che in casa non manca mai. Non faccio niente di male, di troppo avventato: è solo la mia anteprima, la mia piccola assicurazione sulla morte.
Ecco, l'ho detta la parola che fa tanta paura, “morte”, e nel dirla quasi si scioglie in bocca, perde di senso tante volte me la ripeto.
Nella prima parte del
libro Cesarina Vighy narra la sua giovinezza a casa con una
coinquilina, vissuta con grande brio e vivacità tra una festa e
l'altra, tra una giornata lavorativa e l'altra. Ma il racconto parte
dalla sua condizione di immobilità nel letto. C'è una finestra che
le consente di osservare gli alberi e gli uccelli che volano intorno
ad essi. Siamo in estate e tra una medicina e l'altra, la donna è
costretta a letto insieme alla sua gatta, fedele amica che mai
l'abbandona. Si coccolano vicendevolmente, la scrittrice poggia sul
letto la mano e la gatta con una zampa la consola. Cesarina Vighy è
sposata, ha un marito che la ama e che si prende cura di lei. Nessuno
a quanto pare avrebbe mai scommesso sul loro rapporto che al
contrario delle dicerie, dura da più di trent'anni. Un matrimonio
solido che ha dato i suoi frutti: una figlia che la scrittrice chiama
e sente spesso con vari mezzi, sia telefonici che epistolari (per
email precisamente).
Sì, la cosa buona, la cosa migliore che abbia è certo mio marito. Il matrimonio è sempre un mistero (gaudioso o doloroso secondo i casi, mai glorioso) noto soltanto ai due interessati, ma il nostro matrimonio resta un mistero anche per noi. Avevamo tutto contro: è più giovane di me di sette anni e mezzo (e io, per il mio potente Edipo, sono stata sempre attratta da uomini più grandi, anche molto, di me); veniamo da due mondi, due culture, diversi; nessun interesse comune (non ha mai letto una riga di quello che scrivo); un certo disprezzo per gli intellettuali. Ci uniscono certe convinzioni, il laicismo e il sense of humour (ho sempre ammesso tutto da chi mi fa ridere). Ci davano un anno, un anno e mezzo, per arrivare al divorzio e invece la vigilia di Natale ne celebreremo trentanove.
La notte è il momento
più duro per qualsiasi ammalato e la Vighy non fa eccezione. Non
riesce a dormire ed è il lasso di tempo in cui è più attiva:
scrive e scrive, che siano scritti privati, che siano scritti per il
libro in uscita (proprio questo, dichiara), che siano le email da
inviare alla figlia o agli amici più stretti. Quando non riesce a
scrivere per i dolori e per i pensieri, prende un sonnifero che
spesso non funziona. Accanto a lei, il marito che cerca di dormire.
Narra delle sue peripezie mediche, un calvario che l'ha portata a
consultare la bellezza di sette specialisti, tanto per essere sicura
di avere il male dichiarato dal primo. Una diffidenza che trascina
anche nelle diagnosi e nelle cure suggerite. Purtroppo avevano
ragione i medici e lei si trova bloccata a letto, senza forze, senza
poter muovere le gambe, privata del gusto, privata di tutte le vitali
energie. Una malattia che le ha strappato tutto, ma come ripete
spesso, mai le toglierà la speranza e l'ironia. E così viene
raccontato il suo anno, da un'estate all'altra.
Se ricordo bene è proprio la Speranza a restare in fondo al vaso di Pandora dopo che tutti i mali se ne sono scappati via, a infettare il mondo. Dunque, acchiappiamola questa Speranza preziosa, ma con delicatezza, come si prende una bellissima farfalla variopinta, altrimenti ci lascerà solo una polvere d'oro fra le dita.
Nella seconda parte del
libro vengono riportate le email che di notte inoltra alla figlia e
ad alcuni amici stretti. La scrittrice con essi scherza di tutto,
scherza della vita e si prende gioco della propria condizione, della
sua immobilità e della sua stessa malattia. Infine vengono
riproposte le poesie che la Vighy ha scritto nel corso della sua
vita. Sono allegre, sono malinconiche, sono tristi, sono positive,
sono dedicate al sole, alla malattia, alla sua gatta, ai grandi poeti
e ai grandi della storia. Sono poesie miste, dense di pensieri e
considerazioni che la Vighy ripone in versi sulla carta. Sono poesie
molto belle da leggere, così diverse e intense tra loro. Miste come
gli argomenti trattati e lo stile usato.
Gatta alla Metastasio
La mano sulla zampa
la zampa sulla mano
a lungo noi restiamo
sdraiate sul sofà.
Io leggo qualche libro,
tu schiacci un pisolino
se sei troppo vicino
ti dico: vai più in là.
Se il telefono suona
lo lasciamo suonare
non potrà continuare
tutta l'eternità.
Io non ho più la voce
miagoli tu soltanto
non rompete l'incanto
di chi sta bene qua.
Non si tratta di un libro
facile e non è certamente adatto a tutti. La densità di dolore e
sofferenza riportata tra le pagine è troppa per poterlo consigliare,
nonostante il sarcasmo di base che cerca di far galleggiare in
superficie la narrazione. Troppo dolore per leggerlo con leggerezza e
ridere delle battute, troppo forte la condizione dell'autrice, oramai
anziana e malata, per poter sorridere durante la lettura, nonostante
gli sforzi per rendere il tutto più piacevole.
Alessandra Liscia
Alessandra Liscia
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