I figli dei nazisti
di Tania Crasnianski
Bompiani, 2017
Titolo originale: Enfants de nazis
Traduzione di Francesco Peri
pp. 263
€ 18,00
Il saggio di Tania Crasnianski fin dal titolo denuncia il suo intento, perseguito dall'autrice con determinazione e felice piglio narrativo. La questione posta è durissima: possono, e se sì in che misura, le colpe dei padri ricadere sui figli? Come si può portare, da innocente, il peso di una consapevolezza che ferisce e che è inestricabilmente legata al proprio sangue, alle proprie radici? Attraverso la storia di otto famiglie, le famiglie dei gerarchi che avevano affiancato Hitler nei momenti più sanguinosi del regime, la studiosa indaga la natura del male e delle sue conseguenze, invitando ad una riflessione che parte da una prospettiva non consueta. I figli diventano il pretesto per parlare dei padri, le storie degli uni intersecano quelle degli altri. Tutto inizia ben prima dell'ascesa del nazismo e prosegue molto dopo il suo declino: si parte da quando i padri erano figli a loro volta per cercare - senza mai voler giustificare - una spiegazione razionale alla loro deriva, alla scissione che avrebbe accompagnato la loro esistenza (da un lato feroci o indifferenti carnefici, dall'altra affettuosi uomini di casa, genitori attenti alle esigenze della prole). Si arriva al presente, poiché l'incidenza dell'appartenenza famigliare e il marchio d'infamia associato al cognome dei gerarchi non vengono meno col trascorrere delle generazioni, anche se cambia il modo in cui gli eredi riescono a fare i conti col passato.
Al centro della trattazione c'è il tema ambiguo e complesso del silenzio: quello che ha impedito ai figli di fare i conti coi padri, all'intero popolo tedesco di rielaborare per molto tempo il peso della responsabilità dell'Olocausto. Il silenzio che grava sui figli dei sopravvissuti è di natura sostanzialmente differente da quello che affligge i figli dei torturatori:
per i primi "si tratta di un trauma dell'inespresso, dell'inesprimibile, una sorta di barriera senza luce tra le persone. (...) I figli (...) sentono l'orrore che viene passato sotto silenzio, fino a provare una sorta di dovere di compassione nei confronti delle sofferenze patite dai loro genitori".
Al contrario, come constata Martin Adolf Bormann Junior, figlio dello spietato segretario personale di Hitler,
"il peso del silenzio che schiacciava me (...) era qualcosa di molto diverso. Sono io che ho dovuto tacere, vietarmi di parlare per il timore - giustificato o ingiustificato che fosse - di venire scoperto e perseguito come figlio di mio padre, di vedermi rinfacciare tutti i crimini perpetrati dal regime nazista, dei quali nel frattempo avevo preso coscienza. Non ho mai avuto la possibilità di parlare con i miei genitori del passato e del ruolo che loro credevano di avere giocato".
Passare sotto silenzio la barbarie, percepita come tabù o argomento ancora troppo delicato, ha però delle implicazioni pericolose: laddove manca la parola, non è possibile la rielaborazione e si crea il terreno fertile per la nascita di nuovi fondamentalismi. Già il significativo film L'onda (Dennis Gansel, 2008), del resto, metteva in guardia da un simile pericolo: l'ignoranza, associata al perpetrarsi inconsapevole di dinamiche di massa, avvicina i gruppi sociali più chiusi al fanatismo. Ecco perché l'autrice afferma con convinzione pienamente condivisibile che è necessario che "la memoria del nazismo sia oggetto di una trasmissione senza lacune". Sono proprio le lacune nel momento della ricostruzione della propria storia a rendere piene di squilibri le vite dei "figli dei nazisti": ognuno ha intrapreso una strada assolutamente personale, ha trovato un proprio modo per patteggiare con la verità, ma in nessun caso si ritrova una situazione moderata. Si passa dall'adesione cieca, dall'assoluta fedeltà alla memoria dei genitori, di alcune figlie femmine (come Gudrum Himmler o Edda Göring) all'odio feroce di alcuni figli maschi, come Niklas Frank, che si sentono oppressi dal cognome del padre. La violenza dei padri genera eccessi nei figli (e dei nipoti): alcuni sono convinti sostenitori del negazionismo, altri preferiscono evitare di riprodursi per non perpetrare i geni del male; alcuni si avvicinano alle falangi neonaziste, altri riscoprono la religione (ebraica o cattolica); alcuni cercano riscatto per conto del padre, altri cercano riscatto per sé nonostante il padre. Tania Crasnianski riesce a mescolare con sapienza la dimensione saggistica e il gusto per il racconto: la sezione critica, sufficientemente documentata da un buon apparato bibliografico, funge da supporto alla storia (e alla Storia); sono persone, prima che personaggi, quelli che incontriamo tra le pagine. È curiosità umana, più che scientifica, quella che spinge a proseguire la lettura. I singoli capitoli finiscono così per risultare avvincenti, oltre che ricchi di informazioni, nonostante una certa goffaggine nelle chiusure di sintesi. E gli interrogativi che sollevano persistono anche dopo la fine del libro: è davvero possibile prendere le distanze dalle scelte dei padri? Si può, crescendo, intraprendere una strada realmente propria e non condizionata da ciò che è venuto prima? Si trova conferma in questo volume di quanto sosteneva Hannah Arendt: il male non è necessariamente straordinario o mostruoso, il più delle volte è meschino e banale, e può quindi riguardare ognuno di noi. Qual è allora la giusta misura, la via più sicura per non ricadere nel solco tragico da esso scavato? I figli dei nazisti certo non ha l'arroganza di formulare risposte. Aiuta però a suscitare ulteriori domande, a mettere a fuoco con più precisione una questione probabilmente insolubile.
Carolina Pernigo
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