PagineCritiche - Il fascino imperituro di Achille e altre suggestioni omeriche nei «Canti» leopardiani

L'Achille dei «Canti». Leopardi, «L'Infinito», il poema del ritorno a casa
di Gilberto Lonardi
Le Lettere, 2017

pp. 240
€ 20,00 (cartaceo)


«Così tendenzialmente lavora Leopardi, specie con gli antichissimi. Se la vera e propria citazione è esclusa, a essere consentite e anzi cercate saranno piuttosto le vie indirette. Di vario tipo. Il fine resta quello: che non si copra affatto, illusionisticamente, e invece resti intravedibile lo sfondo del nulla» (p. 112).

È da questa sfida ermeneutica, allettante e al tempo stesso temibile, che muove l'indagine di Gilberto Lonardi, che è stato professore ordinario presso l'Università di Verona di Storia della Letteratura italiana, Critica Dantesca e Storia della tradizione classica. D'altra parte, studiare Leopardi e addentrarsi entro le sue fonti e ispirazioni significa misurarsi dialetticamente con la tradizione: mai rivolto all'omaggio pedissequo o piegato al reimpiego lessicale tout-court, il poeta recanatese ha sempre dialogato con i classici senza restare vittima di un'ammirazione statica; piuttosto, reimpiegando immagini, suoni, trasformando frammenti frasali e soprattutto instaurando con i personaggi del passato un rapporto in grado di travalicare il tempo. Elasticità, unita a un incredibile istinto e a una memoria letteraria: si tratta di tre requisiti fondamentali per lo studioso che voglia reinterpretare Leopardi. 

E Lonardi testimonia l'altezza della prosa richiesta a una nuova lettura leopardiana, in primis con il suo dettato ricco ed elegante, il suo lessico prezioso ed estremamente preciso; quindi con il ricorso a più fonti, a cominciare dall'imprescindibile Zibaldone, fino ad arrivare all'epistolario, alla bibliografia su Leopardi (anche se sfruttata parcamente) e, soprattutto, ovviamente, al corpus delle opere. 
Protagonista dello studio, insieme a Giacomo, è Achille, eroe omerico che sa destare in Leopardi invidia per l'eroe, inteso come «un corpo trionfante insieme a un destino notturno, di morte giovane, [...] un destino di vita rapinosa quanto rapida» (p. 12), e al tempo stesso auto-rispecchiamento. Nell'impietosa staffetta che porterà Patroclo a passare il testimone della morte prematura a Ettore e quindi ad Achille, Leopardi si pone come recente mano, pronta ad accogliere il messaggio del fato. E così il dolore: come Achille è avvinto dalla fortuna e dalla sofferenza, così anche Giacomo sembra proporsi come suo ideale discendente, e in tal senso possiamo parlare di Achille come di un mito personale e familiare.
È infatti l'immagine di Achille seduto nostalgicamente accanto all'acqua, in solitudine, a risuonare nelle orecchie del lettore dell'Infinito, testo poetico di cui Lonardi propone una nuova interpretazione, che mira a superare alcuni pregiudizi critici ancora usi, ma assolutamente da rifiutare. E queste sono pagine che attestano quanto un saggio possa farsi poesia, trasfondersi con i versi del poeta, pur mantenendo (paradossalmente) una sapiente distanza critica. Così i temi della solitudine (ma qui «la solitudine del soggetto, da antica maledizione religiosa [...] o colpa anti-sociale, sta diventando una necessità del cuore e dell'intelletto e un segno di distinzione, un vanto da opporre al mondo», p. 50), della lontananza, del pensiero che, sconfitto, si fa immaginazione, prendono nuova vita, attraversando la storia della letteratura: in loro, risuonano suggestioni dal Werther, Rousseau, Alfieri e Chateaubriand, come anche da Saffo. E mirabili sono le conclusioni a cui giunge Lonardi, dopo un'appassionata trattazione che ci porta a uscire dal testo per andare alle fonti, per poi tornarvi più consapevoli:
«L'Infinito è [...] una sorta di poesia d'origine: poesia del Giovane, della sua stessa sovrana solitudine, senza-tu, all'aurora vaga del sentire, nella gioia della propria sigillata assolutezza» (p. 72). 
Ed ecco che, spiccando il grande salto dall'Infinito alla scrittura coeva, si può analizzare la concezione di idillio portata avanti da Leopardi, tenendo ben presente anche la funzione psicologica che assolve. L'idillio in sé «ha la realtà dell'illusione», è una tregua davanti al nulla che già il poeta da giovane percepiva distintamente. D'altra parte, il suicidio, pensiero tanto pervasivo della giovinezza, è stato altrettante volte scritto da Leopardi: se calato nella realtà dell'io-lirico, è visto come una possibilità sempre immaginata, mai realizzata né davvero progettata; il gesto estremo diventa, invece, reale, se compiuto da un alter-ego dell'autore, come Bruto e Saffo. Ed è proprio alla celeberrima Ultimo canto di Saffo che Lonardi dedica un capitolo di intermezzo, che mostra l'agio con cui Leopardi sa muoversi tra realtà, storia e dettagli romanzeschi, per costruire una grande proiezione di sé, sempre dialogante col passato (non mancano, infatti, rimandi all'Iliade e all'Odissea). 
È proprio questa costruzione a "pendolo" tra passato e presente a costituire l'enorme fascino delle Ricordanze, che «si possono leggere, allora, tra epos antichissimo e "moderno" romanzo dell'io» (p. 146), come emerge da citazioni ben contestualizzate. 

In uno studio colmo di suggestioni e di interpretazioni riccamente argomentate, certamente non semplice (d'altra parte, un saggio "semplice" su Leopardi cadrebbe inevitabilmente nel "semplicistico"), Gilberto Lonardi si lascia affascinare ogni volta dalla lettura leopardiana, e quindi affascina il lettore del suo saggio con la pregevole lungimiranza di chi ha studiato tanto un autore da scorgere con estrema chiarezza, fin dal principio del viaggio, l'orizzonte a cui tendere. Così come Leopardi, del resto, che ha uno sguardo «come quello di Cristoforo Colombo, in cerca, pur muovendosi per istituzione tra le coordinate del mondo vecchio, di un passaggio nuovo, e finendo per rovesciare il discorso e ogni visuale: un rivoluzionario senza troppi proclami» (p. 209).


GMGhioni