Discorso sulla disuguaglianza
di Jean-Jacques Rousseau
Editori Laterza, 2017
a cura di M. Garin
pp. 195
€ 12,00
A chi appartiene, questo profilo bizzarro le cui mani
erigono confini? All’uomo, certo. Che sia lui, proprio lui? Dove lo splendore dell’intelletto cui dovrebbero
sottendere le mani che ora annientano e recludono? Quest’uomo non possiede che
una luce fievole: di tanto in tanto la depone, persino; la rilucenza lo acceca.
Attacca la luce al chiodo. Non sarà
investito da alcuna illuminazione,
perpetuerà piuttosto la delizia del confinamento. Allora sarà lui, proprio lui, e non qualcun altro;
insonne, lo angoscia la sostituzione dell’identità, nonostante Cartesio,
nonostante la filosofia; disciplina prediletta, quella economica. Tale, la
fisionomia attraverso cui Jean-Jacques Rousseau tratteggia «una delle questioni
più interessanti che la filosofia possa proporre», quella dell’uomo, presentata
da Laterza in un abito carta-da-zucchero cui la cornice annuncia Discorso
sulla disuguaglianza (a cura di Maria Garin).
Un uomo, Rousseau, si propone di descrivere i propri simili; lui,
soggetto ibrido tra la civiltà e la natura.
Lontano dalla disciplina anatomica il cui impeto aveva detenuto l’uomo alla
carne, al pulsare del cuore, ai neuroni che gli percorrevano il cervello,
l’illuminista ne indaga, polemico, l’ardore morale. Ciò contro cui l’età
moderna discetta è non solo l’afflato divino nell’antropocentrismo, ma pure
qualsiasi pulsione della coscienza. Chi
sono, ormai, io?, il mesto interrogativo; sarò nient’altro che questo paio di polmoni, oppure potrò fregiarmi di
qualcos’altro? Descartes, bambino giocoso, si rallegrava di far lampeggiare
l'aurora del Cogito annodando l’anima alla ghiandola pineale; Hobbes, interlocutore
del proclama rousseauiano, costringeva l’individuo alla paura e al desiderio
piratesco, non governato che da istinti criminali. Antimoderno, Rousseau tratteggia dell’uomo la
dicotomia che lo attraversa, profilo fisico
e palpito morale. Due «specie di disuguaglianza», dunque, di cui una naturale o fisica – physis è per la
terminologia degli antichi greci ciò che esiste per natura e dunque è naturale – e l’altra morale o politica. Alla prima disuguaglianza non ci si può opporre, si può
nient’altro che osservarla entro l’universalità della differenza; l’altra è invece
lo stendardo da combattere.
La fama della massima proposta da Rousseau ha ormai
superato quella dell’autore, in verità mai troppo apprezzato: «Il primo che,
cintato un terreno, pensò di affermare questo
è mio, e trovò persone abbastanza ingenue da credergli fu il vero fondatore
della società civile». Altro che il nido degli individui, tale civiltà ne
diviene l’istituto detentivo. Il contratto che tanta fascinazione aveva destato
in Hobbes, per cui gli individui pur di non azzannarsi tra loro per quel poco
di denaro che il liberalismo sapeva saggiamente distribuire si decidevano a
redigere con una stretta di mano un contratto sovrano che depredasse a un tempo il
palazzo della spada e l’abbazia dello scettro pastorale, diviene nell’opera rousseauiana la
più criminale delle depredazioni. Anche tra i malviventi vi sono delle regole,
affermano Platone prima e il Marchese de Sade poi in un passo di Justine; anche tra gli uomini dabbene!, preciserebbe
amaro Rousseau.
Legittimo (è il caso di scriverlo, pur senza ironia) che
l’intelletto di Rousseau divaghi verso un territorio non contaminato dalla
civiltà. Sarà l’esordio di ogni sua opera. «L’uomo nasce libero, ovunque è in
catene», precisa Il contratto sociale,
di cui il Discorso non è che il
prodromo; «Ogni cosa è buona mentre lascia le mani del Creatore delle cose;
ogni cosa degenera nelle mani dell'uomo», annota l’Emilio. Era forse, tale stato,
una regione che l’uomo civile non avesse ancora ammorbato con il proprio male?
Non solo. Su tutto, un tentativo, meglio, la
tentazione di un uomo ammalato di Santità. Cosa sono Le confessioni altrimenti che l’agiografia dedicata da Rousseau a
sé stesso? La Santità non può tuttavia consumarsi sul territorio del peccato,
necessita l’anelito verso il cielo, il lume.
Per natura, l’uomo è buono; le civiltà ne pervertono i desideri. A cosa
ambisce il selvaggio? Nient’altro che alla soddisfazione di una manciata di
pulsioni primigenie, appagate le quali «è amico di tutti». Non si potrebbe
forse noi, occhi frusti alla cattività del mondo, rimbrottare all’autore un
eccesso d’ottimismo? Non si potrebbe affermare da bravi hobbesiani che v’è
sempre una nuova fame da soddisfare? Lontani dalla narrazione di Rousseau si
potrebbe sostenere che assurdo e infruttuoso sia venir fuori dallo stato di civiltà. E sia; il proposito dell'autore non è che auspicio,
utopia. Sciocca? Forse; eppure dissolto l’uomo, bisogna ritrovarlo.
Antonio Iannone