in

Heidegger: un'eredità culturale mefistofelica e irrisolta

- -

L’ombra di Heidegger (La sombra de Heidegger)

di José Pablo Feinmann

Neri Pozza, 2007

traduzione di Lucio Sessa

pp. 176
€ 15,00


Di José Pablo Feinmann avevo letto due libri piacevoli, ma non banali, come “Cinebrivido” e “Amaro, non troppo”, e un romanzo di spessore più denso, verrebbe da dire buzzatiano, come “L’esercito di cenere”. È stato uno dei miei scrittori di gioventù. Da anni venti, che poi al secolo erano gli anni Novanta. Poi, dopo decenni, capita di vedere il titolo di questo libro, l’accenno a Heidegger e il nome dell’autore argentino mai dimenticato e tralasciato da tanto tempo. Mi ha preso un misto di curiosità e desiderio di chiedere perdono, mi sono detto che Feinmann poteva imbastire sul tema una storia interessante. Partendo peraltro da una certa cognizione di causa visto che a Buenos Aires ha insegnato proprio filosofia.

Com’è che un argentino scrive un romanzo, peraltro dalla struttura narrativa molto indovinata, su un filosofo tedesco? Chi lo conosce Heidegger, non dico in Patagonia, ma nella stessa elite intellettuale platense? Borges stesso ne avrà sentito parlare appena. Prima di convincersi che nei destini, anche quelli di uomini e mondi lontani, e forse la lontananza aiuta, subentrano delle simmetrie. Feinmann partendo da “Essere e Tempo” e il Dasein, da un amore rinnegato tra il Rektor di Friburgo e la sua discepola più promettente Hannah Arendt, dalla venerazione dell’allievo Dieter Müller, che poi lo affiancherà nell’insegnamento, arriva all’Argentina dei desaparecidos.
Non mi soffermo sull’adesione al nazismo di Martin Heidegger, temporanea o storica che sia, ne trattano in una secca ma propositiva postfazione Antonio Gnoli e Franco Volpi. Ovviamente il tema ricorre, anche perché Heidegger, il più grande filosofo del Novecento, o almeno uno dei più grandi, senza il quale non sarebbe esistita buona parte della produzione culturale francese dal 1930 a oggi, tanto per citare il paese nemico per eccellenza della Germania, senza il quale la filosofia sarebbe rimasta ancorata all’approccio gnoseologico di Kant, il cui slancio si era esaurito per colpa proprio dei neokantiani, Heidegger, dicevo, mantiene una caratteristica: è il vero spettro che si aggira per l’Europa. Non a caso nella seconda parte del libro, in cosa si trasforma Heidegger se non in un fantasma? Ma andiamo per ordine.
La prima parte è una lunga lettera che Dieter Müller scrive al figlio Martin, guarda caso il nome, per raccontare in cosa è consistita la sua complicità. Complicità con il totalitarismo nazista. Dieter di fondo è un buon uomo, la sua adesione al nazionalsocialismo non ha radici biologiche o razziali, anzi considera spazzatura Rosenberg e compagnia bella. La sua adesione è di derivazione heideggeriana. È il Maestro, dopo il suo discorso di insediamento al rettorato, che lo porta a vette metafisiche irraggiungibili per chiunque e a sposare una visione, più che un’ideologia: la Germania è l’unica diretta discendente della Grecia e il suo ruolo di centro della civiltà occidentale e dell’Europa, un centro perfino geografico, non può che condurla a rivendicare un legittimo ruolo di guida nei confronti del mondo. E l’uomo, se vuol continuare a essere tale, deve riconoscersi nel Dasein e non nel mercantilismo americano o nel collettivismo sovietico.
La lettera di questo padre è un accorato tentativo di chiarezza, dove non c’è spazio per il politicamente corretto o pentimenti verso giudizi di carattere culturale già espressi. Ciò che turba fino a sconvolgere i delicati equilibri di Dieter Müller è una foto dell’Olocausto e qui è la parte del libro meno originale, con riflessioni che paiono tratte direttamente da Primo Levi.

La seconda parte è invece un monologo di Martin Müller dinanzi a Martin Heidegger. Il primo ha fatto la sua vita e si è deciso a ricercare il filosofo, oramai ritiratosi in una dimensione rurale e solitaria, per fare ulteriore chiarezza su suo padre: sul perché sia rimasto affascinato, suggestionato, ipnotizzato da un Mefistofele. Il monologo di Martin Müller è un’onda tracimante e lo stile di Feinmann diventa una prosa che incombe. Ben circostanziata, da persona abituata a frequentazioni di rango. Heidegger si limita ad ascoltare, a fare qualche smorfia impercettibile e a scomparire. Fantasma sì, ma altezzoso. Il Desein non può replicare al figlio di un allievo. La sua figura rarefatta e confusa nella bruma si accompagna a una domanda ancora più gigantesca, sottintesa da quelle poste da Martin Müller: chi potrà riportare purezza al rapporto tra politica e filosofia, tra storia e spirito, dopo la contaminazione prodotta da un’ombra diabolica, persistente eppure gigantesca?
Ma l’Argentina? Il legame che Feinmann crea con il suo paese nasce da un fatto storico: il Sudamerica come rifugio di molti ex nazisti dopo la fine della guerra. Da questa cronaca oramai acquisita Feinmann, ora più che mai Martin Müller, si getta nell’analisi dell’originalità della pampa e della metropoli del tango, delle alchemiche alleanze politiche tra oligarchie e classi sociali subalterne, del peronismo e della dittatura dei generali. E che c’entra Heidegger? Semplicemente perché quelli che deportavano, torturavano, gettavano dagli aerei, chiedendo protezione a Kissinger, credevano di stare edificando il Quarto Reich. Senza troppi giri di parole: Quarto Reich. Erano i gauchos i nuovi Dasein teste d’ariete contro il bolscevismo. Bizzarra idea. Ma le simmetrie degli eventi sono meno logiche di quelle geometriche. S’impongono e basta.

Marco Caneschi