La Contrada dei Tagliatori di Pietra
di Flavia Guzzo
Rigoni di Asiago, 2017
350 pp.
16,00 € cartaceo
5,99 € formato Kindle
Recensire il libro di un autore esordiente a volte non è semplice. Si rischia di essere condizionati dal fatto che si tratta pur sempre di un'opera prima, e, in fondo in fondo, rimangono dubbi sui possibili margini di miglioramento. Leggendo il bellissimo romanzo di Flavia Guzzo, invece, queste remore vengono spazzate via da una scrittura fortemente evocativa, da una capacità di racconto non comune in un autore esordiente (appunto!) e da una storia che avvince il lettore dalla prima all'ultima pagina. Una bella sorpresa, insomma.
Il libro è ambientato su quell'Altopiano di Asiago, tanto amato e raccontato da Mario Rigoni Stern, e abbraccia un arco di tempo che va dall'inizio del XX secolo fino al 4 novembre 1918. Un periodo, tutto sommato, non molto lungo, ma che cambia il volto del mondo. E delle vite che lo abitano. Un momento storico tragico, segnato dallo scoppio della Grande Guerra, che porta dalla serenità alla disperazione, da una quieta, pur se dura, vita di montagna alla perdita di tutto, pace, casa, felicità, vita in certi casi. Il mondo ne esce capovolto. E anche se la guerra è stata vinta dall'Italia, nulla più potrà tornare come prima. Anche qui, sull'altopiano. Perché, prima della vittoria, c'è stata Caporetto: paesi distrutti, case ridotte a macerie, famiglie smembrate e spedite, profughe, per tutta l'Italia. Una sorte amara che toccherà pure ai protagonisti del romanzo, Teresa e la sua famiglia, costretti di notte a lasciare la propria casa e i propri monti per essere spediti su treni bestiame in qualche località imprecisata del Sud Italia (che per la gente di Asiago allora era lontano e diverso quanto la luna). E qualcuno, su quelle sue belle montagne, non tornerà mai più. Una tragedia locale, questa dei profughi dell'altopiano di Asiago, di cui poco o nulla si ricorda e che comunque non è mai stata raccontata.
Il romanzo si apre in un'atmosfera quasi bucolica, pre-bellica, allorquando la vita dei contadini dei comuni e delle contrade dell'altopiano è scandita dalla natura, dagli orari di accudimento degli animali nelle stalle, dalla stagionalità delle coltivazioni negli orti. Un ritmo di vita naturale, cadenzato dagli amori, dai fidanzamenti, dai matrimoni, dalle gravidanze numerose, che fanno di case e paesi una torma vociante di bambini. Le malattie e le morti sono vissute anch'esse come inevitabilità naturale, termine di un ciclo vitale che tocca tutti, piante, animali, stagioni, uomini. Ma con l'antica consapevolezza che sia giusto così. Diverso sarà invece quando la Morte farà la sua tetra apparizione sull'altopiano con la guerra e tutto il suo carico di inumana violenza, con i giovani strappati alla vita e ai genitori, dilaniati dalle bombe, trucidati o, se vivi, irrimediabilmente storpiati. In uno sconvolgimento che è contro natura.
L'autrice, Flavia Guzzo (docente di Botanica all'università di Verona, scienziata quindi, ma con il dono della scrittura) ha messo in scena in questo libro le vicende vere della propria famiglia, a partire dal contratto di matrimonio stracciato, nel maggio 1901, dalla sua bella e altera bisnonna Teresa, innamoratasi di un altro ragazzo. Con tanti saluti al promesso sposo. È lei, personaggio positivo e potente, il vero motore del romanzo, lei da cui tutto si dipana e a cui tutto ritorna. Intorno a lei, donna indomita, mai prona, travolgente, natura e istinto portati al massimo livello, si muovono tutti gli altri personaggi della famiglia e del paese, veri, quasi tutti, o creati dall'estro dell'autrice. Il racconto, infatti per la maggior parte corrispondente al vero, narra le vicende della grande famiglia che abita il casolare di Casaravecia, all'uscita della contrada dei Tagliatori di pietra, sulla strada per Enego (Vicenza).
Uno degli aspetti più interessanti del libro sta nell'espediente che l'autrice utilizza per raccontare come la grande Storia travolga e rovesci le sorti delle persone comuni: il parallelismo nella quotidianità. Un esempio? Mentre sull'altopiano Teresa e la cognata Giustina stanno preparando la polenta arrostita con i funghi, a Vienna (per loro lontana e sconosciuta) i funghi arricchiscono anche il menù della cena che Sofia d'Asburgo (proprio colei che sarà uccisa a Sarajevo con il consorte Francesco Ferdinando, miccia che farà esplodere la Prima Guerra mondiale) sta organizzando nel suo salone: un desco importante durante il quale il Generale dell'esercito austro-ungarico esporrà le sue idee su come riorganizzare le truppe in vista di operazioni belliche. Una riorganizzazione di cui ben presto ne faranno le spese Teresa, Giustina e tutte le genti dell'altopiano.
E questo gioco di parallelismi tra la grande Storia e le piccole storie ritorna nel romanzo: ciò che accade lontano, come nelle tessere di un domino, prima o poi è destinato ad arrivare vicino (l'arrivo degli acclamati soldati americani portò la vittoria, ma, insieme, nei corpi dei giovani ragazzi, anche l'epidemia della Spagnola, che, ironia amara della sorte, decimerà le genti del Vecchio Continente), ciò che viene deciso nelle alte sfere prima o poi ricade sulla testa della popolazione, in particolare sulla povera gente, che nulla può fare. Se non guardare la propria vita andare in frantumi. E quando la guerra arriverà davvero sull'altopiano, con il suo corredo di militari di stanza, ospedali da campo, spari, esplosioni, morte e distruzione ecco che tutto quello che a Vienna e a Roma è stato deciso precipita, in modo dolorosamente concreto, nelle valli che fino ad allora conoscevano soltanto il potere della natura. Non quello, spesso malvagio, degli uomini.
Molto interessante anche la capacità dell'autrice di delineare il carattere dei numerosi personaggi che popolano il romanzo, dalla già citata bisnonna Teresa, al marito Meni, innamorato e tranquillo, dalla cognata Giustina, timida e dolce, a Paolina, nemica-amica, rossa di capelli, vitale e fumantina, con la quale Teresa si contendeva i cuori dei ragazzi del paese. E poi ancora i tantissimi figli, cugini e nipoti, la perpetua Italia, appassionata e contagiosa, la sorella Antonia, acida e bigotta, il capitano Osvaldo, fine e intelligente, ammiratore dell'esuberante Teresa, e ancora uomini e donne della contrada, tutti ritratti con una finezza di introspezione psicologica che dà luogo a una sorta di epopea paesana. A cui corrisponde la lingua, che si pone a metà tra un dettato letterario e un vernacolo popolano. Un amalgama, a dire il vero, che, a volte, risulta un po' artificioso perché quella che ne esce è una lingua difficilmente utilizzata dalla gente dell'altopiano.
Parlando di scrittura, inoltre, per il futuro mi sentirei di suggerire all'autrice un uso più parco delle maiuscole, che, nel testo, sono sparse a profluvio. E, soprattutto, una revisione più accurata delle bozze: ci sono francamente vari errori di battitura che, a volte, possono disturbare la lettura (anche se, a scusante dell'autrice, è da sottolineare come la versione cartacea del libro, acquistabile, come la versione elettronica, su tutte le piattaforme di e-store, non sia stata revisionata da una casa editrice vera e propria, ma realizzata con l'intento di dare in beneficenza alle scuole dell'altopiano il ricavato della vendita).
Al di là di queste piccole notazioni, l'esordio di Flavia Guzzo è assolutamente positivo e l'augurio per lei è quello di continuare a scrivere perché la mano c'è ed è consolante sapere che ci sono scrittori ancora da scoprire che sanno raccontare storie in maniera così piacevole. Naturalmente la prova del fuoco sarebbe quella di vedere come la scrittrice se la cava al di fuori di una storia familiare e locale, che quindi, come tale, è molto sentita. Ma d'altra parte, mutatis mutandis, Andrea Vitali non è diventato un grande mettendo in scena vita, personaggi e vicende della sua Bellano?