a cura di Carlo Saletti,
prefazione di Frediano Sessi,
postfazione di Franciszek Piper
Marsilio, 2016
pp. 300
€ 17,00
Ci sono libri di cui non si riesce a parlare, pur desiderando farlo, e a gran voce, dalla prima pagina. Questo è quel che accade con La voce dei sommersi. Si vorrebbe divorarlo, ma non si può invece che centellinarlo, macinando pagina dopo pagina, con fatica, per lasciare ai contenuti il tempo di sedimentarsi, di trovare una collocazione in fondo alla coscienza. Si vorrebbe raccontare a tutti, diffondere le informazioni, rendere testimonianza secondo le proprie possibilità, ma ci si rende conto di essere inadeguati al compito, che nulla di ciò che si potrebbe dire restituirebbe la verità dei contenuti. Questo saggio targato Marsilio e curato da Carlo Saletti apre uno spiraglio su una realtà poco conosciuta, nel vasto mare della letteratura sull'Olocausto: riporta le testimonianze di alcuni membri del Sonderkommando di Auschwitz, la squadra di prigionieri addetti, all'interno del campo, alle camere a gas e allo smaltimento dei cadaveri. Le loro parole consentono oggi di sanare quella mancanza già rilevata da Primo Levi, ne I sommersi e i salvati: il profondo, insopportabile paradosso per cui i sopravvissuti (i "salvati") non avevano in realtà avuto accesso all'essenza più profonda della barbarie, mentre coloro che ne avevano fatto esperienza, i "sommersi", non erano sopravvissuti per raccontarla. Gli uomini del Sonderkommando, al contrario, hanno toccato con mano la profondità del male. Hanno visto i loro compagni morire. Hanno avuto un accesso pressoché totale ai meccanismi della distruzione e dello sterminio. Sono sopravvissuti, per quel poco tempo in più che è stato loro concesso, e hanno voluto conservare memoria dell'abbrutimento a cui erano sottoposti.
Dai manoscritti lasciati da quest'umanità disperata si leva forte la parola, una parola
Dai manoscritti lasciati da quest'umanità disperata si leva forte la parola, una parola
frammentata, balbettante, a tratti interrotta dalle cancellazioni dovute al tempo e al fortunoso modo di conservazione o, ancora, a causa delle grandi difficoltà di interpretazione: una parola insieme di memoria e di lotta, un grido di speranza più che di giustizia, rivolto soprattutto alle generazioni future, perché nessuno mai più fosse spinto a 'ripetere l'errore' (pp. 8-9).
La voce dei sommersi ferisce su più livelli. Innanzitutto perché è una voce giovane: i membri del Sonderkommando hanno per lo più tra i 18 e i 25 anni. Hanno accettato un lavoro "in fabbrica", senza sapere che si trattava di una fabbrica di morte, in cui l'uccisione di migliaia di esseri umani diventava industria, sistema da ottimizzare in termini di efficacia, efficienza e metodicità. Come hanno potuto farlo? si chiedono i detrattori, coloro che infangano la memoria. La risposta arriva, lacunosa, ma chiara, ostinata e terribile, dallo scritto di Salmen Lewental:
Rimane un mistero --- è la verità, che la vita --- la vita, la volontà di vivere -- il desiderio di vivere --- non descrivibile, mai apprezzato del tutto [...] l'unica cosa che non distingue gli uomini è il fatto che ciascuno nel suo subconscio è dominato dalla volontà interiore di vivere, dal desiderio di vivere e sopravvivere. L’uomo si ripete di continuo che non si tratta della sua vita, che non si tratta della sua persona, ma solo del bene di tutti. Vuole sopravvivere per un motivo o per un altro, per una ragione o per un’altra, e a questo scopo trova centinaia di scuse. La verità è che si vuole vivere a ogni costo, si vuole vivere perché si vive, perché tutto il mondo vive (pp. 93-94).
La voce dei sommersi ferisce perché persiste, sepolta nelle ceneri, all'interno di borracce, bottiglie, taccuini sgualciti, sopravvissuti fortunosamente al tempo. Ferisce perché non è retorica, né letteraria (solo, a volte, gli eccessi un po' goffi di chi si abbandona al sentimento). Alla "violenza nuda" (Lanzmann) delle camere a gas si contrappone la verità nuda, spogliata di ogni fronzolo o espediente edulcorante, di chi a questa violenza ha assistito davvero. Ferisce perché riecheggia tra le righe la consapevolezza della morte (chi ha visto tutto, conosciuto tutto, deve sparire insieme alle camere a gas), che non soffoca però l'urgenza di dire, di dirsi:
Prego di raccogliere tutte le mie diverse note e descrizioni [...]. Prego di ordinare il materiale e di pubblicarlo sotto il titolo: "Dentro il crimine orrendo". Ora andiamo nella zona. 170 uomini rimasti. Siamo sicuri che ci uccideranno. [...] Oggi è il 26 novembre 1944. (Manoscritto di autore ignoto, p. 222)
Ferisce perché è una voce che non smette di elevarsi a Dio (a credere che un Dio ci sia):
Ogni giorno ci chiediamo se ancora esista Dio, e nonostante ciò io credo che esista. [...] Muoio contento perché so che la nostra Grecia adesso è già libera. Non sopravviverò, ma gli altri devono sopravvivere. (Manoscritto di Marcel Nadsari, p. 242)
Ferisce perché è una voce che non si arrende, che lotta: ai membri del Sonderkommando si deve il fronte di resistenza clandestina interno ai campi; a loro qualche sporadico tentativo di ribellione. A loro si deve anche l'orgogliosa proclamazione dell'ingiustizia, senza mezzi termini, la testimonianza dolorosa di tutte le migliaia di voci che avevano sollevato grida analoghe ed erano rimaste inascoltate.
Là dentro la gente rinchiusa non poteva fare nulla, se non alzare un grido da far pietà. Alcuni si lamentarono con la voce spezzata dalla disperazione, altri ancora singhiozzarono convulsamente, finché si levò un pianto pieno di terrore. Molti recitarono il Widduj oppure gridarono "Shma Israel". Si sarebbero strappati i capelli per l'ingenuità con cui avevano permesso di essere portati in questo luogo, dietro a queste porte sigillate. Con l'unico mezzo che poteva arrivare all'esterno- la voce, che si levava al cielo- inviarono l'ultima protesta contro quella incommensurabile offesa della storia, recata in maniera atroce a uomini innocenti, con l'obiettivo di far sparire in un colpo intere generazioni. (Manoscritto di Lejb Langfus, p. 202))
Pieni di questa protesta, in questa Giornata delle Memoria che vorrebbe diventare sprone a un ricordo persistente e diffuso, in tutti i giorni dell’anno e per tutti i soprusi mai commessi a danno dell’essere umano, non ci resta che sospendere la parola per lasciar spazio alla loro. La voce dei sommersi ferisce, certo, ma più di tutto dà forza, dà speranza, dà un insegnamento.
Carolina Pernigo