di Tiziana D'Oppido
LiberAria, 2017
334 pp.
€ 13,50
È sempre complicato recensire un esordiente, e il motivo principale è che spesso non ci sono metri di giudizio su cui far riferimento. È vero, solitamente chi esordisce con un romanzo ha già alle spalle una bella gavetta fatta di racconti pubblicati su riviste e antologie, ma per come la vedo io un conto sono i racconti sulle riviste, altro sono i romanzi pubblicati da una casa editrice: nel secondo caso abbiamo un impresario che, accollandosi le spese e gli oneri dell'iter editoriale, di fatto si fa garante dell'autore e in qualche modo ne diventa il padre spirituale (in questo caso la madre, visto che a capo di LiberAria c'è Giorgia Antonelli).
E dunque torniamo alla difficoltà di recensire l'esordiente, ossia chi per la prima volta ha trovato qualcuno disposto a investire su di lui/lei: non ci sono opere precedenti a fare da metro di giudizio e non ci sono altri critici con cui confrontarsi, se non quelli che hanno recensito già il testo d'esordio stesso. Se quanto detto vale per il lettore/recensore, non minore è la difficoltà per l'autore, il quale si trova per la prima volta a mettere e rimettere mano a un testo che passa per la fase della scrittura, poi dell'editing e della correzione di bozze e, infine, si trova coinvolto nel giro di presentazioni, interviste, recensioni (e soprattutto in quest'ultimo caso deve saper difendere le proprie posizioni senza uscire dal proprio ruolo, che è quello di colui o colei che ha scritto un romanzo).
Fatta questa lunga premessa, ciò che da lettore ci si trova davanti leggendo Il narratore di verità è un romanzo complesso nel linguaggio, nello stile e nei giochi metaletterari quanto semplice nella trama. È questo un libro esplosivo e frizzante, sicuramente degno di nota, ma che contiene alcuni "sebbene" e qualche "tuttavia".
È infatti un romanzo ben calibrato livello di personaggi, coi quali è facile empatizzare, sebbene i padri dei due protagonisti risultino leggermente troppo macchiettistici e non sempre credibilissimi (anche se questo velo di surrealtà e di caricatura pervade tutto il testo, quindi non ci si può certo aspettare l'introspezione psicologia tipica del thriller o del romanzo di formazione).
È anche un romanzo godibile a livello di trama, che sa catturare il lettore e tenerlo sulle spine nei momenti giusti, sebbene le molteplici sottotrame ‒ tutte in ogni caso attinenti al grande tema La Verità contro le verità ‒ rischino più volte di distrarre dalla trama principale, la quale oltretutto si risolve con un piccolissimo deus ex machina che ha tanto il sapore di un karma risolto.
È un romanzo ben strutturato in termini di tempistiche e in grado di soddisfare il lettore senza lasciargli buchi temporali, sebbene avrei preferito non avere circa 100 pagine su 334 (quasi un terzo) utilizzate a mo' di prologo per spiegare gli eventi contemporanei. Ecco, fra le cose che si possono considerare non positive (perché "negative" sarebbe un termine troppo forte in questo caso), fra i vari sebbene questo è quello che più mi lascia un retrogusto di amaro in bocca, perché da lettore avrei preferito che il passato venisse disciolto nel presente, magari con richiami e flashback, piuttosto che attraverso un abnorme numero di pagine.
È un romanzo che tratta un tema molto importante in questa nostra epoca fatta di bufale, fake news e social network; un'epoca in cui le fonti di informazione e disinformazione sono così tante da non consentire un accesso immediato alla verità quale fatto oggettivo. Il grande tema, già anticipato, La Verità contro le verità ‒ tipicamente contemporaneo, sicuramente post moderno ‒ è largamente affrontato sia al livello delle trame sia al livello dei giochi linguistici e metanarrativi: penso, per fare un solo esempio, al grande puzzle da oltre 20.000 pezzi, bella metafora della verità composta da tante parti, in cui ogni tassello è essenziale, pur nel suo essere effimero e minuto, a comprendere il grande disegno. Anche qui, tuttavia, qualcosa sembra mancare: ad esempio io, da lettore, avrei voluto sapere di più del lavoro del protagonista, che dopo tutto è ciò che dà il titolo al romanzo. Come funziona nell'atto? Con quali modalità si svolge? Quali problemi si trova ad affrontare? Come si rapporta con le verità che deve comunicare? La grande indagine che Lucio si trova davanti (e che costituisce la trama principale) è infatti uno dei suoi casi: ma come si relaziona questo caso rispetto agli altri? Ecco il grande dubbio che mi resta.
Il narratore di verità è, infine, un romanzo scritto con un linguaggio complesso, articolato, ricco, pieno di sfumature. Parole di uso quotidiano si accostano ad altre meno comuni e interessanti anche da imparare, e non sono rari neologismi e accostamenti di termini elevati con altri gergali o con prestiti linguistici. Insomma, lo studio sul linguaggio rappresenta forse l'elemento più interessante del testo (e dopo tutto Tiziana D'Oppido è traduttrice e interprete, le parole le ha nel sangue). Ma anche qui c'è chiedersi: è questo suo uso del linguaggio parte della sua voce, della sua cifra letteraria?
Staremo a vedere. Mi riservo anche qui, come ho fatto per il grande esordio di Marta Zura-Puntaroni con Grande Era Onirica (minimum fax), di sospendere il giudizio in attesa di leggere qualcos'altro di suo. E citandomi, confermo che attesa e speranza dopo tutto sono segni di un esordio col botto.
David Valentini
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