Typee. Un'avventura nelle isole Marchesi
di Herman Melville
Alessandro Polidoro Editore, 2017
Traduzione di Bice Pareto Magliano
A cura di Antonio Esposito
pp. 290
€ 15 (cartaceo)
«Typee o Happar? Una morte spaventosa per mano di feroci cannibali, o un'accoglienza benigna per parte di una razza di più miti selvaggi? Quale di queste due alternative?».
Quali sensazioni può dare leggere un romanzo d'avventura che ci porta a esplorare terre sconosciute, oggi che con i satelliti abbiamo indagato tutta la terra? Chi ha provato a leggerli in questi anni, sa che il fascino di romanzi d'avventura come Robinson Crusoe o Giro del mondo in ottanta giorni non è rimasto scalfito. Certo, li leggiamo con meno stupore dei contemporanei, ma ancora lo spirito di ventura dei protagonisti ci colpisce: è la nostra voglia di viaggiare, di scoprire, di misurarci con realtà nuove, con la natura stessa.
È questo che proviamo anche leggendo Typee, una storia che Melville ha scritto prima del capolavoro Moby Dick, che risale circa al 1846, ovvero oltre un secolo dopo al succitato romanzo di Defoe. La vicenda, di per sé, è facilmente riassumibile: due marinai, stanchi delle condizioni di lavoro massacranti, decidono di tentare la sorte, fermandosi su una delle isole Marchesi, fuggendo dalla nave e inoltrandosi nella foresta lussureggiante ma colma di rischi. Ad esempio, sanno che potrebbero imbattersi in una delle due tribù di indigeni e che il loro destino sarà così segnato: i Typee sono infatti rinomati per le loro pratiche cannibaliche; gli Happar, al contrario, per benevolenza verso gli stranieri.
Tom, il narratore della vicenda, e il suo compagno, Toby, restano spiazzati dalla vastità del territorio e dalla difficoltà di procurarsi cibo. Forse anche per questo si avvicinano a una comunità dopo giorni di digiuno, senza particolari attenzioni. Con loro sorpresa, sono proprio i tanto temuti Typee a offrire loro un rifugio, cibo, accoglienza. Ma è possibile fidarsi di un popolo così? In breve tempo, la gamba di Tom (o Tommo, come lo chiamano gli indigeni) si aggrava: già durante il viaggio Tom avvertiva dolore, ma ormai gli è quasi impossibile muoversi. Anche per questo Toby viene mandato al porto, con la speranza di trovare medicinali per il compagno; ma, con enorme sgomento di Tom, il marinaio non farà mai ritorno dai Typee. Cosa è successo a Toby? Gli indigeni fanno di tutto per non parlarne, e le rare volte lo accusano di aver lasciato l'amico in difficoltà.
Ma Tom sta meglio grazie ai suoi ospiti: presto inizia a girare, sempre accompagnato da alcuni selvaggi, per conoscere usanze, luoghi, rituali, mentre anche le parole della lingua locale si fanno un po' più chiare. D'altra parte,
Se vai a Roma, fa come i romani. Avevo sempre trovato questo proverbio così giusto che, essendo a Typee, mi ero prefisso di fare quello che facevano i Typee. Così mangiavo "poee-poee" come loro; perlustravo la vallata vestito con una semplicità più che estrema, e riposavo con gli altri sulle stuoie del divano; facevo inoltre molte altre cose in conformità con le loro speciali abitudini. Ma il massimo cui arrivai per conformarmi ai loro usi, fu quando mi decisi di mangiare il pesce crudo. (p. 226)
Ed è qui che il romanzo di avventura si prende una sosta per trasformarsi in un vero e proprio trattato di antropologia: con levità, mantenendo salda la propria posizione di narratore, Tom si lascia estasiare dalla bellezza dei luoghi, dalla morbidezza della pelle delle fanciulle typee, dai sapori di certi cibi altrimenti sconosciuti agli europei, come il frutto dell'albero del pane. Il confronto tra la società e gli indigeni è implicito e costante: la spontaneità presente sull'isola non ha niente a che fare con le abitudini di agghindarsi e nascondersi sotto vestiti e gemme preziose, per non mostrare mai davvero come si è. Eppure un'ombra continua a impensierire Tom: cosa vogliono davvero da lui? Perché i locali si mostrano così aperti e accoglienti? Che avesse ragione Toby, a pensare che li stessero ingrassando per poi banchettare con i loro corpi?
Noi lettori sappiamo che qualcosa deve essere intervenuto, perché Tom sta raccontando la storia a posteriori, e dunque si è salvato ed è tornato alla civiltà. Ma che è successo davvero?
È con questa domanda, più che naturale per un romanzo d'avventura, che ci lasciamo condurre per mano attraverso luoghi incantati, usi decisamente interessanti per chiunque si interessi un minimo di antropologia. E non possiamo che applaudire per la capacità di Melville di farci inoltrare senza passi falsi in una società totalmente diversa, di pescatori, cacciatori e raccoglitori, a contatto costante con la natura; per loro il tempo non ha valore, né esiste un'etica del lavoro vera e propria. Ed ecco che questo è un romanzo in grado di rilassare i lettori di oggi, di lasciar vagare la mente nell'arcipelago dell'immaginazione, dove nessun satellite potrà mai portarci.
GMGhioni
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