di Michele Serra
Feltrinelli, 2017
pp. 87
€ 9
Michele Serra è penna di
prestigio de “la Repubblica ”
da decenni. Tiene una rubrica quotidiana, “L’amaca”,
dove regna libertà d’opinione. E migliaia di opinioni si sono susseguite in
25 anni. La leggo sempre volentieri, forse perché sono rimasto affezionato a
quella creatura unica nel panorama editoriale che fu “Cuore”, foglio satirico
diretto dal giornalista romano di nascita e milanese di adozione.
E proprio questi corsivi sono stati raccontati in un
volume di recentissima pubblicazione, sempre per Feltrinelli: “Il grande libro delle amache”. Questo secondo
libretto dedicato a “Sinistra e altre parole strane” rappresenta la postilla
dell’altro. Ora, siccome il primo è particolarmente voluminoso, credo che non
avrebbe rappresentato un dramma aggiungervi 90 pagine in più, circa. Invece,
così è stato deciso, la scelta è caduta su un’ulteriore pubblicazione.
Un po’ la cosa mi ha lasciato
interdetto ma oramai questo sembra l’effetto che la sinistra in generale provoca in me. Come e perché leggere allora
una postilla? Innanzitutto per lo stile, parola che, giustamente, Serra
giornalista mette in evidenza. È il tratto distintivo di chi per mestiere usa
la parola. È il segnale del suo passaggio nel mondo delle idee perché «chi scrive si incammina» e non appena
si mette un piede davanti all’altro «si diventa inconfondibili». Devo dare atto
che Serra lo stile se lo è creato e a esso è rimasto sostanzialmente fedele. In
una sorta di patto con il lettore che, nel caso del nostro, non viene violato.
Chi legge le Amache non ne conosce a priori il contenuto ma sa come quel contenuto
viene proposto.
L’Italia offre molta materia per
un corsivista i cui esordi hanno
coinciso con Tangentopoli e oggi arriva al limitare di una probabile riedizione
del berlusconismo. In tutto questo diluvio di caratteri, per i quali Serra
utilizza strumenti ancora familiari al giornalismo di una volta, di dieci anni
fa mica di un secolo, nutrendo molte remore sui social, è giusto rimarcare come
il podio delle parole sia caratterizzato da questa scaletta: sinistra, politica, Berlusconi, «due
concetti e una persona». Diciamo che qui parte la riflessione più interessante.
I primi danno un senso di comunità, il secondo poi è di radice antica ed è
inutile che mi dilunghi sulla Grecia e la polis.
Più comunità di così. Anche il primo, sinistra,
ha tutto per fare sognare e unire, per restituire pregnanza a una, non dico
tutta, ma almeno parte consistente di agorà.
Il terzo classificato diventa
giocoforza l’intruso che ha scompaginato il campo delle categorie, ci ha
rifilato una serie di performance per le quali andrebbe bene un titolo di
Kundera, “la festa dell’insignificanza”, eppure neanche una penna come Serra ne
ha potuto fare a meno. Ma Michele Serra se lo è potuto permettere perché i suoi
sono corsivi e non saggi (o urne). Il
fatto è che da elemento da avanspettacolo in molti, in genere credo non lettori
di Serra, o lettori e detrattori, hanno preso B. irrimediabilmente sul serio. E
qui nascono problemi troppo più grandi
di un’Amaca.
Un altro concetto che Serra tiene
così a rimarcare è la sua avversione al gentismo, quel richiamo costante alla purezza del
popolo da contrapporre alla
corruzione del Palazzo. A questo mantra, Serra replica invece con la legge della «mediocrità risarcita».
Che mi pare un modo molto raffinato, da intellettuale polemista di sinistra -
ricordate il discorso sullo stile? - per ricordarci che se il Re è nudo, e
questo da tempi immemori, pure i sudditi, almeno in Italia, non sono poi
vestiti troppo bene. Se uno non ha voglia di affrontare “Il grande libro delle
amache”, può sempre spendere un pomeriggio per questo qui: è una buona lezione
di giornalismo, di un certo tipo di giornalismo. Quello in cui chi scrive
lascia le scene, i fatti, per provare a esprimere un convincimento.
Marco Caneschi