di
Adam Smulevich
Giuntina, 2017
pp. 136
€ 12
Anche il calcio ha pagato il suo
tributo alla follia del Novecento.
Più che di secolo, bisognerebbe parlare di “vite brevi”, per rendere omaggio a
singoli individui, in questo caso campioni sportivi osannati pochi anni prima e
poi morti nell’oblio.
Matthias carta velina Sindelar era nato nell’impero austro-ungarico e
vestiva la maglia della nazionale austriaca che era, a cavallo tra gli anni
Venti e Trenta, il Wunderteam, la squadra delle meraviglie. All’epoca chi dettava legge era il calcio danubiano:
Austria, per l’appunto, e Ungheria anche se ai mondiali del 1934 e del 1938 la
spuntò proprio l’Italia. Il soprannome di carta
velina era dovuto al suo fisico e alle sue movenze. Sindelar svolazzava in
campo leggerissimo e sgusciante e dopo l’Anschluss si rifiutò di vestire la
maglia della nazionale tedesca per la sua avversione al nazismo. Poco prima che
scoppiasse la seconda guerra mondiale fu trovato morto con la fidanzata,
un’italiana di origine ebraica, in casa. Ufficialmente per avvelenamento da
monossido di carbonio. “Caso chiuso” si direbbe nei film.
Árpád Weisz era ungherese di
origine ebraica e aveva portato prima l’Ambrosiana nel 1930 e poi il Bologna
nel 1936 e nel 1937 a
vincere lo scudetto. Matteo Marani ha scritto, per l’appunto, “Dallo scudetto ad Auschwitz”, un
titolo emblematico che ripercorre in una riga la terribile vicenda di
quest’uomo, vittima delle leggi razziali fasciste e delle camere a gas. Dal
libro di Marani in poi, si sono moltiplicate le iniziative commemorative e le
targhe negli stadi dove si era consumata la splendida carriera di Weisz
allenatore.
Ed è esattamente sulle leggi
razziali, la loro intrinseca idiozia e malvagità e sugli effetti che ebbero su
tre uomini, che insiste Adam Smulevich, giornalista fiorentino che lavora all'Ucei, nel suo libro “Presidenti”, le
storie dei fondatori delle squadre di calcio di Casale, Napoli e Roma.
Storie diverse perché Raffaele Jaffe, Giorgio Ascarelli e Renato Sacerdoti erano
diversi in tutto. Salvo che in due cose: la passione per il calcio e il loro essere
figli dell’ebraismo italiano, con il quale ebbero peraltro un rapporto molto
complicato fino ad arrivare perfino alla conversione al cattolicesimo.
Non erano anni facili, come
sappiamo, per gli ebrei, una minoranza che lasciava Mussolini piuttosto
indifferente almeno fino alla metà degli anni Trenti. Poi, il processo di
avvicinamento alla Germania hitleriana e alla sua barbarie più profonda, quella
dell’antisemitismo, portò a innescare un processo che culminò nelle leggi della
vergogna, volute dal regime e avallate da Vittorio Emanuele III che per questo
mai potrà essere sepolto al Pantheon. Così, non ci possiamo sorprendere se
alcuni ebrei, fiutata l’aria, pensarono di abbracciare la religione ufficiale e
“ariana” che faceva capo al papa romano. La vicenda di Renato Sacerdoti è in
questo clima emblematica. Tra l’altro, Sacerdoti,
aveva partecipato alla marcia su Roma, era un fascista della prima ora, un
fervente mussoliniano. E da cattolico, sposato con una cattolica e con
figli regolarmente battezzati finì a Ventotene. Dopo avere portato la Roma , la squadra della
capitale, prima alla nascita e successivamente nel palcoscenico calcistico
nazionale in posizioni di prestigio. Sarà presidente del sodalizio giallo-rosso
anche nel dopoguerra, per alcuni anni, ma era come se la ferita del confino non
si fosse in lui rimarginata.
Ventotene, dicevamo. A Sacerdoti
andò di lusso. Raffaele Jaffe finì in una camera a gas ad Auschwitz appena sceso
da un treno della morte. Lo avevano già internato a Fossoli, uno dei campi
italiani di smistamento dei prigionieri, simbolo della ignominia della
repubblica sociale prona al nazismo. Di Raffaele ci restano le lettere colme di
amore che scrisse alla moglie da Fossoli e un archivio che Adam Smulevich ha
potuto consultare grazie alla memoria storica del calcio di Casale: Giancarlo
Ramezzana. Jaffe era un preside e le
squadre di calcio nascevano nelle scuole. La Juventus ne è l’esempio
più emblematico, figlia del liceo classico D’Azeglio di Torino. Ma anche nella
provincia piemontese, seppur partendo dai banchi di una classe, si prendevano
le cose sul serio quando si trattava di giocare a questo nuovo sport che i
marinai genovesi avevano importato dall’Inghilterra. Non a caso la Juventus dell’epoca era la Pro Vercelli. Ma a Jaffe questo
non andava giù e anche la sua Casale doveva essere in grado di competere con i
rivali vercellesi e vendicare un’onta che risaliva addirittura al medioevo.
Mentre scadeva l’ultimatum dell’Austria-Ungheria alla Serbia, il Casale…
leggetevi la storia direttamente dalle parole di Smulevich, perché i più
romantici troveranno di che sorprendersi.
Giorgio Ascarelli, infine, era figlio di una città sul mare, era abituato agli
affari e alla filantropia. Di idee socialiste pensò per il suo Napoli in
grande, fino a prospettare il progetto di uno stadio della squadra e ad
acquistare i “Maradona” dell’epoca. Ascarelli non fece in tempo a vivere l’Europa
in macerie, verrebbe da dire per sua fortuna, non fece neanche in tempo a
vedere la promulgazione delle leggi razziali e a subirne le conseguenze. Ma…
c’è sempre tempo, purtroppo, per ritorsioni postume.
Grazie ad Adam Smulevich sono
riemersi tre uomini, tre storie e un comune denominatore: il calcio contro i mostri creati dal sonno della ragione. Uno sport
dal linguaggio universale gioca ancora oggi, troppo spesso a ben guardare,
questa che è la sua partita più difficile.
Marco Caneschi
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