di Maurizio Agnello
Leima, 2017
pp. 372
€ 16,00
Esiste una regola assolutamente giusta, una procedura a prova di infiltrazioni? Può un sistema di elezioni aperto e libero essere la rovina della democrazia?
Da queste ipotesi paradossali prende le mosse Soldatini ribelli, primo romanzo di Maurizio Agnello, edito da Leima (leggi anche la presentazione della casa editrice, a cura di Serena Alessi). Nella vita di tutti i giorni, Agnello è un pubblico ministero specializzato in contrasto al narcotraffico e criminalità organizzata. Il suo libro lo rispecchia in toto: per l'ambiente (la procura del capoluogo siciliano), per i temi (l'infiltrazione della 'ndrangheta in politica, i sotterfugi della mafia per coprire il traffico di droga) e lo stile.
L'aereo su cui viaggiava Enrico de Vita, presidente del Senato, scompare improvvisamente dai radar. I giornalisti stentano a dare la notizia e nessuna procura sembra interessata all'indagine. Ma per il sostituto procuratore Fabio De Falco il mistero de Vita è un'occasione per far carriera: un caso da prima pagina, che gli darà la popolarità che ha sempre inseguito. Mentre Fabio si fa strada nella tortuosa burocrazia degli uffici giudiziari, guadagnando a fatica le poche informazioni disponibili, emerge il ritratto del presidente del Senato: un manager del petrolio cocainomane, improvvisamente diventato un politico ai massimi livelli grazie alla mediazione della 'ndragheta. Quanto più Fabio indaga, tanto più emerge il ruolo della mafia nella gestione della cosa pubblica, dal Parlamento ai giornali; e mentre il giallo de Vita si infittisce, una domanda ritorna prepotente: i cittadini sono pronti a conoscere la verità?
Senza svelare troppo della trama, quello di Agnello è evidentemente un giallo giudiziario-politico. Niente caccia all'assassino, ma una trama di "trame", mi si passi il gioco di parole, un labirinto di falsi amici di cui il protagonista De Falco cerca faticosamente l'uscita.
Ma chi è De Falco? Anche se nella prefazione lo si presenta come anti-eroe, De Falco è un personaggio a sua volte duplice: non il classico magistrato integerrimo, anzi, un arrampicatore che ha scelto la giustizia come mezzo per far carriera, stanco di abusi edilizi e altre scartoffie, in cerca di quell'indagine che faccia di lui una star dei tribunali e dei talk show. Un personaggio che a qualcuno sarà antipatico, ma (purtroppo) molto più comune e realistico degli eroi senza macchia e senza paura.
Al tempo stesso, il "cattivissimo" De Falco è l'unico che stia veramente dietro all'indagine. Per amor di sé, per sete di fama, perché nessuno può mettere ostacoli sul suo cammino. Fatto sta che De Falco è l'unico abbastanza coraggioso da impelagarsi in una storia di mafia, anzi, di mafie: perché oltre alla cricca dei calabresi, al boss Pasquale Cecere e al suo figlio "infame", ci sono anche altri meccanismi - favoritismi, collusioni, ricatti e scambi di poltrone - che inquinano il sistema economico politico. Visto che il crimine organizzato non si serve più di pizzini e santine bruciate, teste di cavallo e dita punciute, ma infiltra le posizioni di potere dall'interno, intorno a De Falco "è tutta una mafia".
De Falco, tra l'altro, è l'unico che davvero creda nelle istituzioni: con la scusa che "gli italiani non sono pronti a conoscere la verità", tutti gli altri personaggi nascondono le magagne sotto il tappeto.
Chiaro che l'ipotesi paradossale da cui parte il romanzo (un Senato divenuto consesso di mafiosi e teste di legno) contiene una pesante critica - e forse anche un segnale di allarme - rispetto alla qualità della nostra politica. Regole chiare e antiche, in mano a persone di nessuno spessore (che siano politici di professione o improvvisati, poco cambia) e in assenza di un valido controllo, possono mettere a morte la Democrazia e la Costituzione. Perché il punto è questo: nessuna regola e nessuna istituzione, per quanto perfette, saranno esenti da pericoli, se lasciate in mano di chi voglia approfittarsene. La trama altro non è che la logica conseguenza di un inquinamento sottovalutato, un'infiltrazione che, non fermata in tempo, fa crollare il soffitto dell'edificio.
Se questo è il contenuto del libro, che merita un plauso, un giudizio a parte va al capitolo forma: purtroppo la tensione del romanzo è smorzata da alcune scelte grafiche e di stile che ne ostacolano la lettura. Tra tutti, la presenza insistita e frequente di Titoli, Cariche, Posizioni (tutte scritte in lettere maiuscole, esempio: l'Avvocato Generale della Corte di Appello). Sicuramente in una conclusionale o un ricorso è corretto scrivere in questo modo, così come in comunicato stampa o in un mattinale troviamo il Comando dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale. Ma tutta questa solennità, questa formalità, in un romanzo è ridondante e anche un po' comica. Idem per i casi, anche questi frequenti, in cui l'amore per la precisione si ritorce contro il lettore, come quando si cita espressamente l'articolo della Legge n. 140 del 2003, o quando un personaggio, con fare tra l'ammiccante e lo spocchioso, impartisce all'altro lezioni di procedura ("Tu mi insegni che il provvedimento XXX si può adottare nei soli casi in cui..."). Anche per chi, come me, ha una formazione che consente di decriptare il giuridichese, questo linguaggio risulta fuori posto e, ciò che è peggio, smorza la tensione.
In conclusione, il protagonista è affascinante e complesso; gli argomenti, lungi dallo scivolare sul lettore come quelli di un qualunque giallo-in-serie, offrono lo spunto per una riflessione, insomma, non si fanno dimenticare. Proprio per valorizzare questa materia servirebbe una sostanziale revisione formale, che renderebbe molto più appetibile l'intero romanzo, consentendo a Fabio De Falco e al suo creatore di "sfondare" nel cuore dei lettori.
Francesca Romana Genoviva
L'aereo su cui viaggiava Enrico de Vita, presidente del Senato, scompare improvvisamente dai radar. I giornalisti stentano a dare la notizia e nessuna procura sembra interessata all'indagine. Ma per il sostituto procuratore Fabio De Falco il mistero de Vita è un'occasione per far carriera: un caso da prima pagina, che gli darà la popolarità che ha sempre inseguito. Mentre Fabio si fa strada nella tortuosa burocrazia degli uffici giudiziari, guadagnando a fatica le poche informazioni disponibili, emerge il ritratto del presidente del Senato: un manager del petrolio cocainomane, improvvisamente diventato un politico ai massimi livelli grazie alla mediazione della 'ndragheta. Quanto più Fabio indaga, tanto più emerge il ruolo della mafia nella gestione della cosa pubblica, dal Parlamento ai giornali; e mentre il giallo de Vita si infittisce, una domanda ritorna prepotente: i cittadini sono pronti a conoscere la verità?
Senza svelare troppo della trama, quello di Agnello è evidentemente un giallo giudiziario-politico. Niente caccia all'assassino, ma una trama di "trame", mi si passi il gioco di parole, un labirinto di falsi amici di cui il protagonista De Falco cerca faticosamente l'uscita.
Ma chi è De Falco? Anche se nella prefazione lo si presenta come anti-eroe, De Falco è un personaggio a sua volte duplice: non il classico magistrato integerrimo, anzi, un arrampicatore che ha scelto la giustizia come mezzo per far carriera, stanco di abusi edilizi e altre scartoffie, in cerca di quell'indagine che faccia di lui una star dei tribunali e dei talk show. Un personaggio che a qualcuno sarà antipatico, ma (purtroppo) molto più comune e realistico degli eroi senza macchia e senza paura.
Al tempo stesso, il "cattivissimo" De Falco è l'unico che stia veramente dietro all'indagine. Per amor di sé, per sete di fama, perché nessuno può mettere ostacoli sul suo cammino. Fatto sta che De Falco è l'unico abbastanza coraggioso da impelagarsi in una storia di mafia, anzi, di mafie: perché oltre alla cricca dei calabresi, al boss Pasquale Cecere e al suo figlio "infame", ci sono anche altri meccanismi - favoritismi, collusioni, ricatti e scambi di poltrone - che inquinano il sistema economico politico. Visto che il crimine organizzato non si serve più di pizzini e santine bruciate, teste di cavallo e dita punciute, ma infiltra le posizioni di potere dall'interno, intorno a De Falco "è tutta una mafia".
De Falco, tra l'altro, è l'unico che davvero creda nelle istituzioni: con la scusa che "gli italiani non sono pronti a conoscere la verità", tutti gli altri personaggi nascondono le magagne sotto il tappeto.
Chiaro che l'ipotesi paradossale da cui parte il romanzo (un Senato divenuto consesso di mafiosi e teste di legno) contiene una pesante critica - e forse anche un segnale di allarme - rispetto alla qualità della nostra politica. Regole chiare e antiche, in mano a persone di nessuno spessore (che siano politici di professione o improvvisati, poco cambia) e in assenza di un valido controllo, possono mettere a morte la Democrazia e la Costituzione. Perché il punto è questo: nessuna regola e nessuna istituzione, per quanto perfette, saranno esenti da pericoli, se lasciate in mano di chi voglia approfittarsene. La trama altro non è che la logica conseguenza di un inquinamento sottovalutato, un'infiltrazione che, non fermata in tempo, fa crollare il soffitto dell'edificio.
Se questo è il contenuto del libro, che merita un plauso, un giudizio a parte va al capitolo forma: purtroppo la tensione del romanzo è smorzata da alcune scelte grafiche e di stile che ne ostacolano la lettura. Tra tutti, la presenza insistita e frequente di Titoli, Cariche, Posizioni (tutte scritte in lettere maiuscole, esempio: l'Avvocato Generale della Corte di Appello). Sicuramente in una conclusionale o un ricorso è corretto scrivere in questo modo, così come in comunicato stampa o in un mattinale troviamo il Comando dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale. Ma tutta questa solennità, questa formalità, in un romanzo è ridondante e anche un po' comica. Idem per i casi, anche questi frequenti, in cui l'amore per la precisione si ritorce contro il lettore, come quando si cita espressamente l'articolo della Legge n. 140 del 2003, o quando un personaggio, con fare tra l'ammiccante e lo spocchioso, impartisce all'altro lezioni di procedura ("Tu mi insegni che il provvedimento XXX si può adottare nei soli casi in cui..."). Anche per chi, come me, ha una formazione che consente di decriptare il giuridichese, questo linguaggio risulta fuori posto e, ciò che è peggio, smorza la tensione.
In conclusione, il protagonista è affascinante e complesso; gli argomenti, lungi dallo scivolare sul lettore come quelli di un qualunque giallo-in-serie, offrono lo spunto per una riflessione, insomma, non si fanno dimenticare. Proprio per valorizzare questa materia servirebbe una sostanziale revisione formale, che renderebbe molto più appetibile l'intero romanzo, consentendo a Fabio De Falco e al suo creatore di "sfondare" nel cuore dei lettori.
Francesca Romana Genoviva
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