La casa Tellier.
Da un racconto di Guy de Maupassant
illustrazioni di Iacopo Vecchio
adattamento del testi di Lorenza Tonani e Iacopo Vecchio
Hop Edizioni, 2017
pp. 64
€ 15,00
Sappiamo tutti come andò a finire la storia di “Bocca di rosa”, la celebre prostituita cantata da Fabrizio de André nel 1967: costretta a lasciare il paesino di Sant’Ilario, trovò calorosa accoglienza già in quello poco distante, dove entrò persino nelle grazie di un illuminato sacerdote: questo, che pur nel rispetto dei propri doveri non disprezzava le gioie date del «bene effimero della bellezza», non ebbe nulla da obiettare nemmeno sulla presenza della rinomata donna di piacere alla processione rituale, a poca distanza dalla più giovane e immacolata delle parrocchiane. Così, del tutto pacificamente, il prete descritto dal cantautore genovese conciliava al meglio «l’amore sacro e l’amor profano», certo che il buon Dio, nel suo superiore disegno, ne avesse evidentemente previsto la coesistenza. Della stessa opinione, tempo addietro, era stato anche Guy de Maupassant, quando nel racconto La casa Tellier (1881) aveva smascherato l’ipocrisia borghese a proposito della figura delle meretrici, non di rado più pure e modeste di tante dame, rispettabili all’apparenza, eppure rotte a ogni bassezza della vita. Proprio questo racconto, ancora attualissimo e già più volte ispiratore di adattamenti per il grande schermo, è divenuto oggi una graphic novel pubblicata da Hop! Edizioni a firma di Iacopo Vecchio, che ne ha anche curato i testi con la direttrice editoriale Lorenza Tonani.
Iacopo Vecchio_La casa Tellier |
Primo volume della nuova collana Cahiers, dedicata alla letteratura e alla sua traduzione in immagini, La casa Tellier traspone in sessanta tavole una storia «piccola e preziosa», e lo fa con uno stile che sembra mutuare la sua cifra più efficace proprio dalle strategie seduttive delle sue cinque protagoniste, ovvero le animatrici della casa di tolleranza di Fécamp, in Normandia, diretta con garbo esemplare da Madame Tellier. Ammiccamento, suggerimento, allusione sono difatti i comuni denominatori della narrazione, in un gioco di specchi e di rimandi che Iacopo Vecchio gestisce come in uno spettacolo di raffinato burlesque, in cui a destare più impressione è proprio ciò che non viene mai mostrato. Dopotutto, già nell’incipit, è proprio l’improvvisa chiusura della casa – e dunque l’assenza delle donne in città per una notte – a suscitare una reazione più che stizzita tra i comuni avventori; mentre, di contrappunto, sarà proprio la loro inattesa presenza durante una cerimonia religiosa a destare scandalo nella comunità di un paese vicino, e a rivelarsi occasione perfetta per una lezione di umiltà collettiva promossa dal locale pastore di anime. Il tutto scandito da dialoghi essenziali e disegni acquerellati dai toni pastello, evanescenti come un profumo, nei quali è chiara l’eredità dell’arte simbolo della Belle Époque francese, volutamente “sprecisa” e al tempo stesso efficacissima: impossibile, nello sfogliare le pagine, non pensare a più riprese alla lezione dei maggiori impressionisti e dei principali precursori – da Manet a Monet passando per Degas – e di un artista unico e inimitabile (e proprio per questo imitatissimo) come Henri de Toulouse Lautrec.
Lo sguardo di Iacopo Vecchio si fa sentire nei tagli paesaggistici en plein air e negli scorci degli ambienti interni, come anche nella grazia burrosa che emana dalle fisicità muliebri e negli atteggiamenti precisi delle meretrici: donne che si lavano, si pettinano, si aiutano vicendevolmente nei preparativi per le interminabili notti del locale, stringendosi un corsetto o scegliendo una giarrettiera; le stesse figure femminili così ben osservate, comprese e ritratte – senza moralismi e anzi con complicità – dai maggiori pittori loro contemporanei. A volte, poi, la citazione è talmente diretta da rendersi subito riconoscibile in qualità di omaggio: come nella tavola in cui Madame, nel dare il benvenuto agli ospiti abituali, è presentata in una posa e in una mise che richiamano in tutto e per tutto (ma con la sintesi che è caratteristica dello stile adottato dall'illustratore) Un bar aux Folies Bergère (1881-1882) di Édouard Manet. Più in generale, e per tutta la durata della storia, le cinque animatrici del bordello – Raphaéle, Fernande, Rose, Louise detta Coccola e Flora detta Altalena (ovvero le ragazze del bar, «vere serve d’albergo», chiamate anche «le due pompe») sono presenze amabili, gaie, dedite a un servizio di pubblica utilità che l’autore sgrava di ogni accezione volgare. Al contrario, è proprio il lato sensibile del loro temperamento a risultare accentuato: ora in contrasto alle figure maschili – ombre scure e ambigue, pronte allo sfogo violento di fronte al portone chiuso senza preavviso «per prima comunione», prepotenti oppure esitanti nell’approccio diretto con l'altro sesso –, ora in contrappunto rispetto alla comunità cosiddetta civile – sagome indistinguibili ammantate di presunta perfezione morale –, ora in perfetto accordo con l’innocenza di un’infanzia candida e immacolata che tale deve restare.
Senza cedere alla tentazione di un mero descrittivismo, magari tutto giocato su una sovrabbondanza di dettagli che avrebbero certamente gratificato l’osservatore, Iacopo Vecchio racconta questa breve storia di Maupassant con uno sguardo preciso, sintetico, e dimostrando di possedere una personale abilità registica che si palesa nel taglio spesso ardito e decentrato delle inquadrature e nel brusco scarto dei campi e dei piani adottati; così, per esempio, in una delle scene di maggiore pathos, il dettaglio dell’ostia consacrata tra le mani del sacerdote è seguito a breve distanza dal primissimo piano sui suoi occhi sbarrati e poi dal totale della sua arringa ai fedeli. Forse, a ben guardare, nemmeno il biancore improvviso di un’intera pagina può essere considerato una scelta casuale: in essa ci sono il senso dell’attesa e della sospensione, quasi si trattasse di una pausa di raccoglimento che l’autore ci invita a fare per predisporre al meglio lo spirito, così da poterci addentrare senza pregiudizi e senza timidezze tra le stanze discrete e accoglienti della casa Tellier, certi di trascorrervi delle ore indimenticabili.
Iacopo Vecchio_La casa Tellier |
Lo sguardo di Iacopo Vecchio si fa sentire nei tagli paesaggistici en plein air e negli scorci degli ambienti interni, come anche nella grazia burrosa che emana dalle fisicità muliebri e negli atteggiamenti precisi delle meretrici: donne che si lavano, si pettinano, si aiutano vicendevolmente nei preparativi per le interminabili notti del locale, stringendosi un corsetto o scegliendo una giarrettiera; le stesse figure femminili così ben osservate, comprese e ritratte – senza moralismi e anzi con complicità – dai maggiori pittori loro contemporanei. A volte, poi, la citazione è talmente diretta da rendersi subito riconoscibile in qualità di omaggio: come nella tavola in cui Madame, nel dare il benvenuto agli ospiti abituali, è presentata in una posa e in una mise che richiamano in tutto e per tutto (ma con la sintesi che è caratteristica dello stile adottato dall'illustratore) Un bar aux Folies Bergère (1881-1882) di Édouard Manet. Più in generale, e per tutta la durata della storia, le cinque animatrici del bordello – Raphaéle, Fernande, Rose, Louise detta Coccola e Flora detta Altalena (ovvero le ragazze del bar, «vere serve d’albergo», chiamate anche «le due pompe») sono presenze amabili, gaie, dedite a un servizio di pubblica utilità che l’autore sgrava di ogni accezione volgare. Al contrario, è proprio il lato sensibile del loro temperamento a risultare accentuato: ora in contrasto alle figure maschili – ombre scure e ambigue, pronte allo sfogo violento di fronte al portone chiuso senza preavviso «per prima comunione», prepotenti oppure esitanti nell’approccio diretto con l'altro sesso –, ora in contrappunto rispetto alla comunità cosiddetta civile – sagome indistinguibili ammantate di presunta perfezione morale –, ora in perfetto accordo con l’innocenza di un’infanzia candida e immacolata che tale deve restare.
Iacopo Vecchio_La casa Tellier |
Senza cedere alla tentazione di un mero descrittivismo, magari tutto giocato su una sovrabbondanza di dettagli che avrebbero certamente gratificato l’osservatore, Iacopo Vecchio racconta questa breve storia di Maupassant con uno sguardo preciso, sintetico, e dimostrando di possedere una personale abilità registica che si palesa nel taglio spesso ardito e decentrato delle inquadrature e nel brusco scarto dei campi e dei piani adottati; così, per esempio, in una delle scene di maggiore pathos, il dettaglio dell’ostia consacrata tra le mani del sacerdote è seguito a breve distanza dal primissimo piano sui suoi occhi sbarrati e poi dal totale della sua arringa ai fedeli. Forse, a ben guardare, nemmeno il biancore improvviso di un’intera pagina può essere considerato una scelta casuale: in essa ci sono il senso dell’attesa e della sospensione, quasi si trattasse di una pausa di raccoglimento che l’autore ci invita a fare per predisporre al meglio lo spirito, così da poterci addentrare senza pregiudizi e senza timidezze tra le stanze discrete e accoglienti della casa Tellier, certi di trascorrervi delle ore indimenticabili.
Cecilia Mariani
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