Siamo tutte delle gran bugiarde.
Conversazione con Giovanni Pannacci
di Paolo Poli e Giovanni Pannacci
Giulio Perrone Editore, 2018
pp. 107
10,00 €
10,00 €
Provateci voi a scrivere una biografia di Paolo Poli. Provate, dico, a mettere ordine nell'esistenza di un intellettuale e di un attore che da sempre, nella vita come nell’arte, ha rifuggito e sbeffeggiato ogni forma di classificazione canonica. Provate pure a fare affidamento sulla cronologia, sui materiali d’archivio, sulla carta stampata, sugli ipse dixit di più o meno illustre provenienza e affidabilità. Di materiale ne troverete in abbondanza, ma nella peggiore delle ipotesi ne verrà fuori un compitino filologicamente corretto, che con ogni probabilità lui avrebbe definito «noioso» (con allusione transitiva alla vostra stessa persona, s’intende). Di contro, nel migliore dei casi, il risultato corrisponderà a una parzialissima dichiarazione d’amore per il personaggio: un falso, tutto sommato, ma che forse lo avrebbe soddisfatto un po’ di più. Che fare, dunque? O meglio: come ha fatto, allora, Giovanni Pannacci? Niente di più semplice: ha rinunciato al tradizionale procedimento biografico e si è abbandonato alla forma dialogica. Siamo tutte delle gran bugiarde – dato alle stampe una prima volta nel 2009 da Giulio Perrone Editore e ripubblicato nuovamente adesso, a quasi due anni dalla scomparsa del grande affabulatore, con una nuova veste grafica – non poteva che essere (come da sottotitolo) una conversazione tra lui e l’ultimo vero istrione italiano.
È stata una vita lunghissima, quella di Paolo Poli (1929-2016), ma era soprattutto la sua vitalità a sembrare infinita, la sua personalità a risultare intimidente. Proprio per questo, con la sua alternanza di domande-risposte e di brani più discorsivi, di raccordo e in terza persona, la formula mista adottata dal volume risulta la migliore delle opzioni possibili. Quello dell’incompletezza, così, è un rischio quasi programmatico, in cui il non detto accresce il fascino del biografato, mentre l’andamento è mosso, dinamico, con improvvisi scambi di ruolo: prima è dialettico, un attimo dopo è maieutico, e non di rado è l’intervistato che fa scoprire cose di sé all’intervistatore (esempio: «devi darti alle avventure infime, vedrai: ci troverai giovamento»). Se questa scelta funziona è perché al lettore sembra proprio di stare al posto di Pannacci o al limite al suo fianco, in ogni caso a tu per tu con l’artista nel salotto candido della sua casa romana, diviso fisicamente da lui dai supporti di mestiere di una memoria giornalistica (registratore, penna, taccuino…) che nulla possono al cospetto del suo magistero.
Paolo Poli è un’autentica miniera, “incarnata” e inesauribile, di ricordi, aneddoti, pettegolezzi, canzoncine e filastrocche: per ogni quesito una manciata di gemme preziose, per ogni curiosità un filone d’oro e uno d’argento. Capitolo dopo capitolo racconta e spiega di tutto, con gusto e senza reticenze, intrecciando le trame della vita privata e della vita pubblica tra le lunghe e mobilissime dita: è il bambino che a otto anni – con il consenso di una madre illuminata, maestra montessoriana – legge un libro pornografico di cui non capisce nulla ma che gli piace moltissimo (una sorta di mito di fondazione della personalità poliana); è il giovinetto dalla bellezza delicata che non teme l’alternanza di teatro, fotoromanzi e cinema (tutta esperienza); è il capocomico in carriera e dallo spirito pratico che fa quadrare i conti della sua compagnia, ma anche il maestro del travestitismo in scena, rivendicatore di una gagliardissima «nobiltà di coscia»; è l’incubo della RAI democristiana e l’anatema di ogni spirito bigotto che ancora si fa il segno della croce ripensando allo scandalo della sua Rita da Cascia; è l’uomo colto, con un debole per la pittura, sempre curioso del nuovo e preoccupato soltanto dall’avvento di una subdola pigrizia senile dello spirito, ovvero della resa a quel senso del “già visto” e “già sentito” dato dall’intensità dei decenni passati. Nell’eterno gioco artistico della seduzione – avventure galanti a parte: si veda il capitolo I maschi – Paolo Poli è allo stesso tempo il serpente e il suo incantatore:
«non c’è distinzione tra il mio lavoro e il resto (…) siamo un tutt’uno con quello che facciamo. Chi è stato capace di realizzarsi in qualcosa, porta tutte le sue componenti in quella cosa e io anche tutte le mie componenti di finocchiezza le ho messe lì, nel teatro. Una volta mi si è rotta la cerniera lampo sulla schiena e ho detto alla sarta: “Lasciala aperta! Se non posso mostrare le tette mostrerò il culo!”».
Arricchito al suo interno da una carrellata di ritratti dell’attore – ben sedici, resi ancora più belli dalla scelta del bianco e nero –, Siamo tutte delle gran bugiarde è una biografia-conversazione che si apre e si chiude come un baule di scena, in cui ogni travestimento, ogni maschera e ogni belletto – alla pari di ogni citazione dotta, ogni storiella sconcia, ogni amicizia illustre – svela (a crederci come a non crederci affatto) la natura dell’artista suo proprietario. Letta l’ultima frase, Paolo Poli è ancora lì, con il sorriso enigmatico e la risata inconfondibile, argentina e cattiva come quella di un bambino divertito, mentre a noi, orfani ancora inconsolabili della sua morte, non resta che ringraziare gli strumenti tecnologici della nostra epoca; vale a dire quelli che, in attesa di un vero tributo televisivo, ci consentiranno di rivedere a piacimento interviste, sketch, scenette e addirittura interi spettacoli. Con due certezze: la prima è che né un equivalente né un erede di Paolo Poli sono oggi in circolazione; la seconda è che saremmo tutte delle gran bugiarde a sostenere il contrario.
Cecilia Mariani
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