François Truffaut.
La letteratura al cinema
a cura di Denis Brotto
Marsilio, 2018
pp. 159
euro 16,00
François Truffaut, la letteratura, il cinema: chissà se questo ménage a trois d’elezione artistica avrebbe esaurito oggi la sua peculiare alchimia. Purtroppo, come è noto, non è dato saperlo: il regista, sceneggiatore, attore e critico simbolo delle Nouvelle vague morì prematuramente nel 1984, all’apice del successo e della propria parabola creativa, lasciando in eredità capolavori come Jules et Jim (1962), Fahrenheit 451 (1966), Effetto notte (1973), L’ultimo metrò (1980) e soprattutto I 400 colpi (1959), primo fortunatissimo capitolo della cosiddetta “saga” del personaggio Antoine Doinel (la cinquina di lungometraggi interpretati da un Jean-Pierre Léaud in stato di grazia, alter-ego nonché attore feticcio del suo creatore). A più di trent’anni dalla scomparsa, Truffaut si conferma uno dei cineasti più amati e studiati nel mondo, un riferimento imprescindibile per chiunque abbia trovato nella settima arte una professione o una non meno totalizzante passione: non si contano le monografie, i contributi saggistici in rivista o in volume, le rassegne e i cineforum dedicati. E c’è una costante: il suo cinema tende a piacere a chi, come lui, amava leggere. Di più: amava leggere per poi trasporre sul grande schermo quegli stessi racconti, romanzi, epistolari e diari; oppure, in modo meno referenziale, replicarne atmosfere e suggestioni, in pellicole popolate non di rado da bibliofili, grafomani e addirittura uomini-libro. A questo felicissimo rapporto di ibridazione feconda l’Università degli Studi di Padova ha dedicato nelle giornate del 28 e 29 maggio del 2015 il convegno François Truffaut. La letteratura al cinema, i cui interventi, con la cura di Denis Brotto, sono stati appena pubblicati da Marsilio per inaugurare la nuova, omonima, collana (“La letteratura al cinema”, per l’appunto).
Nella Prefazione a sua firma, è proprio Denis Brotto – ricercatore presso l’ateneo padovano nell’ambito degli studi sul cinema e sui rapporti tra linguaggio cinematografico e nuove tecnologie – a spiegare le motivazioni del nuovo progetto accademico-editoriale:
«questa raccolta di scritti vuole non essere una circostanza occasionale in cui limitarsi a continuare l’ampio corso di studi rivolto al regista francese, bensì un modo per aprire un’accurata riflessione in merito al preminente ruolo avuto dalla letteratura all’interno della sua opera: letteratura come veicolo di narrazione; letteratura come elemento fattuale, atto di scrittura, interferenza simbolica; letteratura come tratto culturale caratterizzante; e, ancora, letteratura come materia da rimodellare sino a scardinare la definizione dei generi. A trent’anni dalla sua scomparsa, il cinema di Truffaut ci consegna un laboratorio delle possibili relazioni con il letterario, e ciò non solo sul piano del racconto, ma anche su quello della forma, del visivo, della rifrazione. Nelle sue intenzioni questo libro vuole dunque rappresentare una possibile mappatura delle numerose e differenti articolazioni che François Truffaut ha saputo intrattenere con la letteratura».
Fedele a queste premesse, dunque, è la varietà degli interventi saggistici, alcuni dei quali a firma dei più importanti studiosi italiani dell’artista francese, come Paola Malanga (è suo Tutto il cinema di Truffaut, pubblicato da Baldini & Castoldi nel 1996), Giorgio Tinazzi (autore di Truffaut. Il piacere della finzione, edito nello stesso anno da Marsilio) e Aldo Tassone (François Truffaut. Professione Cinema. Interviste inedite, Il Castoro, 2006). Ed è una varietà, tuttavia, non scontata, dal momento che i relatori non si sono limitati alle disamine più ovvie - quali film sono stati tratti da quali libri, e come - ma hanno cercato di mettere in luce di volta in volta suggestioni originali e sfaccettature inedite. Così, per esempio, se proprio Paola Malanga può tracciare un profilo generale del regista coniando per lui la definizione L’uomo che amava i libri – chiaramente ispirata al film L’uomo che amava le donne (1977) –, Fiona Dalziel si insinua con maggiore precisione tra le ombre e i chiaroscuri del rapporto tra Truffaut e lo scrittore noir americano Cornell Woolrich, dai cui romanzi il regista ricavò La sposa in nero (1968) e La mia droga si chiama Julie (1969). Ancora, non sono meno suggestivi i contributi di Rosamaria Salvatore e dello stesso Denis Brotto, incentrati rispettivamente sull’importanza della scrittura epistolare nella poetica cinematografica truffautiana e sulle varie gradazioni assunte da un vero e proprio culto degli scrittori in un film come La camera verde (1978), il cui protagonista custodisce i ritratti degli autori più cari in una stanza appositamente dedicata. Apparentemente più slegati al tema del convegno, e invece a propria volta ancorati al terreno comune della narrazione, sono poi l’analisi di Aldo Tassone sulle cosiddette «affinità selettive» tra Truffaut e Fellini (rievocate anche attraverso aneddoti e interviste oltre che dal confronto tra le pellicole), quella di Alberto Scandola sullo stile recitativo della prediletta attrice Jeanne Moreau, e quello di Roberto Calabretto sulla funzione della musica nella filmografia truffautiana.
Programmaticamente non esaustivo, il volume curato da Denis Brotto è un libro che celebra la memoria del regista francese in uno dei suoi aspetti più noti e al contempo più intimi, cioè a partire da quella passione per storie, mondi e personaggi immaginari che gli salvò letteralmente la vita, quando, ancora giovanissimo ma già provato e disilluso, volgeva sempre più spesso lo sguardo alla “poesia” del cielo per fuggire la mera “prosa” della realtà circostante. Il suo rapporto con la letteratura – prima ancora che con il cinema, e in generale con l’arte – fu sempre un rapporto basato sulla gratitudine. Anche per questo, forse, come ben si legge nella Prefazione, «solo Truffaut avrebbe potuto fare un film in cui i libri bruciano l’uno dopo l’altro, riuscendo al contempo a fare di quelle immagini un autentico altare della memoria letteraria, con l’essere umano capace di divenire egli stesso libro pur di preservarne l’essenza».
Programmaticamente non esaustivo, il volume curato da Denis Brotto è un libro che celebra la memoria del regista francese in uno dei suoi aspetti più noti e al contempo più intimi, cioè a partire da quella passione per storie, mondi e personaggi immaginari che gli salvò letteralmente la vita, quando, ancora giovanissimo ma già provato e disilluso, volgeva sempre più spesso lo sguardo alla “poesia” del cielo per fuggire la mera “prosa” della realtà circostante. Il suo rapporto con la letteratura – prima ancora che con il cinema, e in generale con l’arte – fu sempre un rapporto basato sulla gratitudine. Anche per questo, forse, come ben si legge nella Prefazione, «solo Truffaut avrebbe potuto fare un film in cui i libri bruciano l’uno dopo l’altro, riuscendo al contempo a fare di quelle immagini un autentico altare della memoria letteraria, con l’essere umano capace di divenire egli stesso libro pur di preservarne l’essenza».
Arricchita da alcuni fotogrammi esplicativi – ma al lettore sembreranno troppo pochi: non resta che correre ai ripari con la visione di tutti i film citati – questa raccolta soddisferà indistintamente sia gli estimatori di Truffaut sia coloro che ne conoscono l’opera per sommi capi o che addirittura non la conoscono affatto; a patto che abbiano un minimo di interesse per l’autore e che ne condividano la passione per la letteratura, è in primis a loro che sembrano rivolgersi la bibliografia e la filmografia in coda al volume. Una particolare nota di merito va poi allo stile lineare, transitivo e suggestivo che accomuna i dieci saggi pur nella varietà delle firme (c’è forse una sola eccezione che conferma la regola: il lettore la individuerà da sé…). E chissà che anche questo non vada inteso come un omaggio collettivo alla poetica del grande cineasta, sempre animata da un profondo rispetto per il pubblico: quello dei cinema come quello delle librerie.
Cecilia Mariani