Fiori sopra l'inferno
di Ilaria Tuti
Longanesi, 2018
pp. 366
€ 16,90 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
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Si immagini il lettore un poliziesco avvincente, con personaggi ben costruiti e ambientazioni suggestive. Si immagini che tutto fili liscio, l'indagine ormai incanalata nella giusta direzione e a un passo dalla soluzione. Si immagini che proprio nella scena in cui finalmente l'assassino viene assicurato alla giustizia qualcosa vada storto: un'incrinatura nella logica su cui si regge una parte delle intuizioni dell’investigatore apre una fessura che, piano piano, si allarga fino a divenire una voragine e mettere in ombra i meriti di tutto il romanzo.
È quello che potrebbe succedere con Fiori sopra l'inferno di Ilaria Tuti, definito da Longanesi caso editoriale dell'anno e che ha riscosso un buon successo a Francoforte; che emoziona e coinvolge, ma che, alla fine, proprio sul più bello, delude.
Quando il commissario Teresa Battaglia si trova a tu per tu con l'assassino, infatti, deve far fronte alla difficoltà di comunicare con lui, giacché si tratta di un uomo che è stato coinvolto in un esperimento di deprivazione affettiva fin dalla nascita e per quindici anni. Quindi non è stato esposto al linguaggio nei primi anni di vita e, per questo, è incapace di comprendere e parlare una lingua. Un dettaglio, questo, che nelle pagine del libro viene accennato più volte, di sfuggita e con certa titubanza. Se non che, proprio nella scena più importante del testo è la protagonista, il commissario Teresa Battaglia, a sbatterlo in faccia al lettore con tutta la sua evidenza. Qual è il problema? Il problema è che la teoria che regge l'indagine è che il serial killer commetta le sue aggressioni (in un caso non arriva ad uccidere) sulla base di conversazioni origliate. Ma come fa un uomo che non capisce la lingua umana, che non sa parlare, a origliare e comprendere una conversazione?
Il dettaglio sfugge per tutto il romanzo perché l'attenzione del lettore è letteralmente rapita da un personaggio come il commissario Teresa Battaglia. Il primo merito di Fiori sopra l'inferno risiede principalmente in questo. Donna dal carattere spigoloso e spigolato da un'esperienza di vita costellata di difficoltà e dolori inespressi, semmai soffocati in un'abnegazione al lavoro che la fanno una fine e acuta profiler. Il debito di Ilaria Tuti con testi come Mindhunter di John Douglas è evidente. E, per questo, la scrittrice friulana si aggiunge a Piergiorgio Pulixi nel novero dei noiristi italiani che usano la criminologia nei loro romanzi. Tuttavia, Teresa Battaglia nasconde un'umanità quasi inaspettata, una capacità direi innata di entrare in empatia con gli esseri umani che la circondano, a cominciare dall'assassino: che non disprezza, ma cerca di capire fino alla conclusione, quando è evidente che si tratta, allo stesso tempo, di carnefice e vittima. E il lettore non può che darle ragione.
Gli altri personaggi che ruotano attorno al commissario (a partire dall'ispettore Marini) non ne mettono in ombra la grandezza, anzi la esaltano fino a farla divenire l'elemento forse più interessante del romanzo. Come in un gioco di specchi, poi, Teresa Battaglia esalta chi la circonda, quasi a voler restituire una parte della luce che la illumina. Inoltre, commissario e ispettore sono due personaggi che evolvono durante la narrazione: la prima ci appare alla fine molto più debole e insicura di come ci era stata presentata all'inizio, mentre il secondo vive un vero e proprio Bildungsroman. Se nelle prime pagine Marini ci appare maldestro e inopportuno, nel finale è la spalla ideale di un commissario indebolito dalla malattia e che avrà bisogno di un collega competente quanto lei che l'aiuti.
Il secondo merito di Fiori sopra l'inverno è l'ambientazione montana, che rispecchia il carattere di Teresa Battaglia: fredda, accidentata, difficile da approcciare, ma in fin dei conti calda e accogliente. Sono le Alpi Carniche, ai piedi delle quali sorge Gemona del Friuli, città natale di Ilaria Tuti alla quale, nei ringraziamenti, l'autrice riconosce un forte debito. Non è difficile, infatti, riconoscere nel piccolo villaggio inventato di Travernì posti come Forni di Sopra o Prato Carnico. Nel freddo della montagna e nella sua inospitalità, proprio come nella ruvidezza del carattere di Teresa Battaglia, si cela un calore in grado di sciogliere il ghiaccio che intrappola i rapporti umani.
Cosa resta a margine di un protagonista ottimamente costruito e un'ambientazione suggestiva? Non molto, a dire il vero. L'assassino ha una sua fisicità e la Tuti è molto abile nel dare voce a un personaggio che non proferisce una parola in tutto il romanzo. Ma nell'epilogo cade nello stereotipo del selvaggio buono, ovvero dell'uomo che, cresciuto in mezzo alla natura, ha un'anima pura e incontaminata. È tanto forte questa caratterizzazione che assolve moralmente l'assassino dai suoi crimini, ribaltando la scala di valori e facendolo apparire come una vittima. È chiaramente una vittima, ma per ben altri e oscuri motivi che, invece, non vengono indagati. Di fatto, il mito del selvaggio buono esime il commissario Battaglia e Ilaria Tuti dallo scavare nella psicologia del carnefice fino a illuminarne i lati più oscuri:
Andrea esisteva su un altro piano rispetto al loro: primordiale, spoglio di ogni ipocrisia e umana bassezza. Nemmeno la morte sembra corromperlo.
Il focus non è sul Male e anche nei confronti del dottor Wallner, che aveva sottoposto il futuro serial killer alla deprivazione affettiva, si perde una grande occasione. Scoperto e arrestato, non occupa che lo spazio di una comparsa.
Il risultato è un libro "schizofrenico", che per tre quarti coinvolge ed emoziona, ma che alla fine si perde. Il personaggio di Teresa Battaglia è stato giustamente lusingato, anche se viene il sospetto che la componente di genere (scrittrice donna con personaggio donna) abbia giocato un ruolo decisivo, francamente non necessario. La letteratura noir contemporanea conosce scrittrici di grande talento, come Claudia Barbato, Grazia Verasani o Danila Comastri Montanari, quest'ultima unica donna membro del gruppo 13 di Loriano Macchiavelli. E Ilaria Tuti si va ad aggiungere a questo parziale e limitatissimo elenco. Dirò di più: Teresa Battaglia ricorda in alcuni tic il commissario Pedra Delicado di Alicia Gimenez-Bartlett, vincitrice del Premio Carvalho qualche anno fa.
Il caso editoriale è stato annunciato fin dalla Fiera di Francoforte, dove il romanzo della Tuti ha ottenuto buoni riscontri tra gli editori europei. Tuttavia, le aspettative create solo in parte vengono poi soddisfatte: dare vita a un buon commissario di polizia e metterlo in un paesaggio innevato non è sufficiente. Anche se ci si costruisce intorno una trama noir di tutto rispetto, seppur con alcune lacune.
Ilaria Tuti è una scrittrice di talento, Fiori sopra l'inferno è un buon esordio, che sarà sicuramente un best seller, come ben dimostrano le classifiche di vendita delle ultime settimane. Ciononostante, qualcosa non torna negli 81 capitoli e nelle 366 pagine di questo romanzo. Si ha la sensazione, alla fine, che torni l’ordine. L’indagine risolve le storture e l’universo narrativo torna a essere un luogo abitabile, ordinato, calmo, come evidenziato nel primo capitolo dell'Epilogo (forse la parte che eccede e di cui era meglio fare a meno). Non si tratta necessariamente di un difetto, ma non è quello che si richiede oggi al noir. Anche il segreto e le zone d’ombra del borgo di Travernì, ben tratteggiate per 250 pagine, svaniscono quando ci si accorge che, fondamentalmente, riguardano un uomo e un bambino. Una volta eliminati quest’uomo e questo bambino cresciuto dal microcosmo di Travernì, tutto sembra tornare alla normalità. Il caos non persiste, l’indagine non mette in evidenza le falle della società in cui viviamo, lo status quo non viene messo in discussione: come in un poliziesco di fine Ottocento, solo che tutto, dal commissario alle atmosfere, farebbe pensare il contrario.
Alessio Piras