La fattoria dei gelsomini
di Elizabeth von Arnim
Fazi editore, 2018
Traduzione di Sabina Terziani
pp. 280
€ 15,00 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
Era come trovarsi nella propria tomba, tale era il silenzio che regnava tra le pareti spesse e antiche. Il vuoto.
Sembra improbabile, eppure la prima descrizione della fattoria dei gelsomini che Elizabeth von Arnim consegna ai lettori suggerisce un clima mortifero, lugubre e molto lontano dalla gioia che il titolo evoca con il suo mondo di fiori profumati. Sembra assurdo, eppure tale descrizione giunge nella seconda metà del testo, tanto da chiedersi nel corso della prima metà se ci sia stato un clamoroso errore di traduzione del titolo originale. Invece tutto sarà spiegato con il consueto piglio narrativo a cui Elizabeth von Arnim ci ha abituati sin dai suoi primi romanzi. Nell’intera prima parte della storia de La fattoria del gelsomini si osserverà dal buco della serratura la messinscena della vita quotidiana della più alta nobiltà inglese dei primi del Novecento. Attenzione: la parola messinscena non deve tradire un mio giudizio negativo sul racconto, anzi.
Non c’è alcuna falsità nelle dinamiche raccontate, tutto è invece assolutamente veritiero e grazie a questo spionaggio silenzioso, ci si tufferà a capofitto in un vorticoso succedersi di eventi, iniziato in un infausto weekend nella residenza di villeggiatura di Lady Daisy Midhurst, ricchissima vedova che si circonda delle personalità più illustri dell’alta società londinese e di questa muove i fili come in uno spettacolo di marionette: chi entra nelle sue grazie ottiene il titolo a vita di “personalità di spicco”. Grazie a alla sua sensibilità e conoscenza della vita mondana, infatti, Daisy sceglie con lungimiranza tutti gli attori della Londra che conta, e li battezza proprio invitandoli nei suoi celebri fine settimana di relax a Shillerton. Peccato che durante quest’ultima occasione qualcosa è andato storto. La padrona di casa non sembra lei, orchestrando malamente le portate durante i pasti, non dimostrando il suo consueto fulgore (frutto di frequenti sedute dalle migliori estetiste di Parigi) e anche l’adorata figlia Terry non sembra trovare una spiegazione all’impasse a cui tutta la comitiva è costretta. La giovane donna, ancora nubile perché dedita completamente alle attività caritatevoli presso i più poveri della società, emblema di purezza e castità, si troverà ad essere l’unica guida in questo marasma di personalità tra cui spicca la giovane e bellissima Rosie, moglie del contabile della famiglia Midhurst, Andrew, e simbolo di quegli arrampicatori sociali che provano a insinuarsi tra le pieghe della nobiltà. Ma un weekend noioso non rimane solo tale, purtroppo. Sempre più insofferenti dal tenore delle giornate Mr Topham (un esponente del governo di Londra) e Andrew trovano rifugio in una lunga partita a scacchi, che si protrae fino a notte inoltrata, quando tutti gli altri sono già a letto. Peccato solo che la candida Terry, il mattino dopo, sappia chi ha vinto. A questo punto i sospetti di adulterio di Rosie diventano certezza: non le resta che mettere a punto la vendetta. E quale miglior alleata, se non la madre, l’esuberante Mrs de Lacy, “Mumsie”, scaltra come poche, che non vede l’ora di irrompere sulla scena, avendo già fiutato l’occasione per guadagnarci qualcosa?
Da questo momento in poi, la storia assume una velocità inaspettata e i personaggi si muovono come in un balletto dalla perfetta coreografia, imbastita magistralmente da Elizabeth von Arnim. Ripropongo ancora una volta la parola messinscena poco sopra usata per dire che La fattoria dei gelsomini somiglia più a un copione di una commedia che non a un romanzo. Le ipocrisie, le falsità, gli atteggiamenti degli attori della storia vengono svelati con il ritmo tipico delle rappresentazioni teatrali, con tanto di ingressi, uscite e apparizioni improvvise nelle stanze dei palazzi, con il vantaggio offerto dalla scrittura di approfondire i pensieri di tutti i protagonisti della storia, dai personaggi principali ai domestici apparsi il tempo di un cambio di scena. Così l’autrice mette sotto i nostri occhi tutto quello che lei stessa in prima persona ha vissuto nel suo tempo, senza filtri o forzature, e con estrema ironia consegna ai lettori un libro divertente, che fa sorridere spesso e qualche volta ridere di gusto, senza mai giudicare o dare un proprio parere sulle cose. La società inglese di quegli anni era così, semplicemente. E se si sono amati il romanticismo di Jane Austen e il ritmo narrativo di Downton Abbey, questo libro è il giusto compromesso per lasciarsi accompagnare in piacevoli letture pomeridiane. Rigorosamente innaffiate da una tazza di tè.
Federica Privitera
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