Non oso dire la gioia
di Laura Imai Messina
Piemme, 2018
pp. 402
18,50€ (cartaceo)
9,99€ (ebook)
In questa storia [...] vi è la passione degli incontri, il desiderio di sperimentare a fondo la parzialità dell'esistenza. (p. 8)
Prendi una ragazza italiana di ventitré anni che decide di trasferirsi in Giappone per continuare e approfondire i suoi studi letterari. Prendi che questa ragazza, cinque anni dopo, decida di raccontare la vita nel nuovo luogo che è diventato casa sua scrivendone periodicamente su un blog chiamato Giappone Mon amour inaugurando il racconto con la cronaca dei giorni precedenti le sue nozze in stile tradizionale giapponese.
Prendi che questa ragazza, diventata una professoressa di italiano all’Università di Tokyo, non solo abbia su Facebook un nutrito seguito di appassionati del paese che per primo apre gli occhi sul mondo, luogo unico e dal fascino che a lascia a bocca aperta, ma pubblica il suo primo romanzo (Tokyo Orizzontale, Piemme, 2014) riscuotendo un grande successo e facendo diventare quasi virale (almeno tra gli appassionati) l’immagine di Tokyo descritta come un melograno. Allinea tutto questo ordinatamente, come solo un maestro di sushi sa fare sul suo bancone, e apri Non oso dire la gioia, il secondo romanzo di Laura Imai Messina. Io l’ho fatto e ho scoperto con immensa soddisfazione (e orgoglio, e tra poco vi dirò perché) che Laura, che riesce sempre a trovare le parole giuste per raccontare di gesti, abitudini, templi e stagioni ogni giorno (e chi scrive è tra quelli che aspettano con ansia la chicca che descriverà un altro aspetto insolito, un’altra curiosità unica sul Giappone), nel suo secondo romanzo non ha attuato una naturale prosecuzione social delle sue pagine virtuali. Non oso dire la gioia possiede la stessa intensità ideologica del suo stesso titolo, che l’autrice ha scelto come suggestione da un lettura di Emil Cioran.
Prendi che questa ragazza, diventata una professoressa di italiano all’Università di Tokyo, non solo abbia su Facebook un nutrito seguito di appassionati del paese che per primo apre gli occhi sul mondo, luogo unico e dal fascino che a lascia a bocca aperta, ma pubblica il suo primo romanzo (Tokyo Orizzontale, Piemme, 2014) riscuotendo un grande successo e facendo diventare quasi virale (almeno tra gli appassionati) l’immagine di Tokyo descritta come un melograno. Allinea tutto questo ordinatamente, come solo un maestro di sushi sa fare sul suo bancone, e apri Non oso dire la gioia, il secondo romanzo di Laura Imai Messina. Io l’ho fatto e ho scoperto con immensa soddisfazione (e orgoglio, e tra poco vi dirò perché) che Laura, che riesce sempre a trovare le parole giuste per raccontare di gesti, abitudini, templi e stagioni ogni giorno (e chi scrive è tra quelli che aspettano con ansia la chicca che descriverà un altro aspetto insolito, un’altra curiosità unica sul Giappone), nel suo secondo romanzo non ha attuato una naturale prosecuzione social delle sue pagine virtuali. Non oso dire la gioia possiede la stessa intensità ideologica del suo stesso titolo, che l’autrice ha scelto come suggestione da un lettura di Emil Cioran.
Sebbene non sia una persona fisica, la vera protagonista di tutto il romanzo è la genitorialità e le più belle, sono le pagine a lei dedicate:
Talvolta l’interezza dei nostri genitori ci si palesa troppo tardi, quando ormai sono defunti e nello svuotare la loro abitazione da reliquie e spazzatura rinveniamo pezzi di quanto sono stati. Tuttavia il più delle volte finiamo per non accorgercene nemmeno. Muoiono loro e moriamo noi senza conoscere di quell’uomo e quella donna nient’altro che la scorza. (p. 279)Momoko è figlia di due mondi, nata da genitori giapponesi ma cresciuta in Italia e persegue questa dualità lavorando come interprete nelle grandi operazioni d'affari di aziende italiane in Giappone. Dietro la sua maschera di indipendenza e autonomia, cela un nugolo di domande interiori che ogni notte la rimandano a quella volta che poteva essere e non è stato, in un circolo vizioso tra rifiuto e ricerca che non le permette di essere felice. Marcel è il classico bravo ragazzo con una vita dalle sfaccettature nascoste, a volte oscure, che fa della neutralità la marca distintiva di ogni suo gesto e abitudine, unica via di fuga dall’asfittica vita a cui la mamma l’ha costretto sin dai primi giorni della sua vita, mai libero di frequentare chi volesse o di trascorrere un giorno senza dirle che lei fosse l’unico amore della sua vita «perché sua madre pretendeva il primo posto». Adesso è un mite bibliotecario che rende le sue giornate più dinamiche grazie alla ventata di altalenante follia di Jean, all’anagrafe Nicola, amico fedele e unico dai tempi del ginnasio che in Marcel ha visto la sua vera famiglia, quella che ti scegli e non quella che la natura ti ha dato, la stessa natura che ha spinto suo padre a rifiutarlo per quello che è e a relegarlo in un limbo di solitudine da cui Jean sfugge aggrappandosi con le unghie alla schiena, neanche a dirlo, di Marcel. Ma è Clara, donna dell’alta borghesia romana dal triste passato familiare celato sotto anni di lotte per lasciarselo alle spalle, la pietra angolare di tutto il racconto. Lei che identifica la felicità con la maternità, divenuta unico scopo della sua (apparentemente) appagante vita accanto a un marito innamorato. Proprio il gesto estremo che compirà per provare a estirpare l’oni dell’infelicità dalla sua anima, darà l’avvio alla serie turbinosa di eventi che si concluderà con una presa di coscienza sulla differenza tra la gioia e la felicità, lei «che non si sa esprimere nella gioia neppure quando la possiede di diritto».
L’orgoglio di cui parlavo all’inizio della recensione è tutto merito di Lura Imai Messina che in un contesto letterario nazionale e non - non risparmio nessuno - di autori più interessati a dire ciò che i facilmente distraibili lettori contemporanei vogliono sentirsi dire mantenendo inalterata l’appetibilità della fascetta, che non a dire qualcosa veramente, dimostra con Non oso dire la gioia di aver superato la fatidica prova del nove per ogni autore, il secondo romanzo, grazie a una maturità stilistica che in Tokyo Orizzontale iniziava solo a germogliare. A quest’esame l’autrice si è presentata con la levità di Fosco Maraini nel raccontare, come quando in Giappone Mandala crea un ponte ideale tra Italia e Giappone mettendo in luce la preziosità del diverso; con la naturalezza di Yukio Mishima nel parlare senza imbarazzo o giudizio di qualunque argomento; infine, tratteggiando riflessioni e pensieri con il tratto onirico del Murakami più ispirato.
Non oso dire la gioia è un insieme di intrecci, di tessere di vita sparse per il mondo che grazie alla pazienza e alla volontà di saperne cogliere la preziosa essenza vanno a collocarsi nella giusta posizione così da disegnare una dimensione di gioia. È un romanzo che possiede tutte le caratteristiche narrative che lo rendono tale, ma al contempo è un manifesto filosofico che inneggia alla vita vera, alle emozioni intense e alla necessità di ricercarle nel quotidiano. E se non sono riuscita a spiegare a sufficienza l’intensità di questa storia, provate a verificarlo voi stessi immergendovi nella lettura.
Federica Privitera