La casa degli sguardi
di Daniele Mencarelli
Mondadori, 2018
pp. 228
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
È un destino più che una malattia. Una stranezza infame. Quel che agisce sugli altri come tesoro in me si trasforma in dolore. È la sorte di chi è nato per soccombere. […] La paura è il mio demonio, trasforma tutto prima che sia vissuto in un disastro scritto, con lei ho perso ancora prima d’aver combattuto. Allora ci si curi. Si metta dentro la medicina che fa dimenticare, che uccide la paura. E le medicine le ho provate tutte, sino a quest’ultima. Ormai esco per bere e bevo per uscire. Sul certificato dell’ultimo ricovero il medico ha scritto: “Abuso d’alcol come dipendenza di ripiego da sostanze stupefacenti”. Mi ucciderà un ripiego, l’ultima carta del mazzo (pp. 12-13).
Con questa consapevolezza
tagliente si apre La casa degli sguardi, esordio narrativo di Daniele
Mencarelli che, dopo essersi misurato con la scrittura poetica – sue sono le
raccolte I giorni condivisi (2001), Bambino Gesù (2001), Guardia alta (2005) e
le più recenti figlio (2013) e Storia d’amore (2015) – con
questa opera prima dimostra di saper dominare con lucidità stilistica e armonia
strutturale anche la narrazione estesa. Quello che colpisce, infatti, fin dalle
prime pagine è la capacità di restituire con poche, semplici, penetranti e
precisissime parole una condizione complessa e dolorosa, come quella
dell’alcolista conclamato, dilaniato da un dolore profondo, sulfureo, ancipite,
in cui schiere di feroci demoni - la fobia sociale, l’ansia, la vergogna, la
rabbia - si mescolano a un bisogno di vita pura, infinita, assoluta.
La rassegna dei medici a caro prezzo non ha colto soluzione possibile, a parte farmaci e accoglienza a ore, a parte dare nomi diversi a quello che dovrei o non dovrei avere. Maniaco depressivo. Borderline. Disturbo della personalità. Sindrome d’ansia generalizzata. […] Ma io non sono malato, sono vivo oltre misura, come una bestia più consapevole delle altre bestie. Ormai agli uomini non è più permesso interrogarsi, abbracciare fino in fondo l’insensatezza su cui abbiamo costruito certezze assurde. Perché alla vita, al lavoro, al farsi una famiglia, a queste cose bisogna credere, come un soldato alla guerra. Come se non bastasse un niente a far scattare il destino, a far finire tutto. Perché finisce tutto, non rimane niente. È il niente che mi uccide, che mi ha condotto a questo presente vuoto. Dovrei solo smettere di chiedere, cercare, dovrei solo far finta di non cogliere ovunque l’assenza di qualcosa, qualcuno. Un’assenza sterminata che rende infelice anche l’amore (p. 10).
E sarà proprio questa
consapevolezza del vuoto a far nascere un desiderio di vita piena che, come una
flebile luce, consentirà al protagonista di orientarsi nelle tenebre del suo
dolore, di abbandonare la strada della dimenticanza, il vero antidoto al dolore
offerto dall’alcool, per ritrovare, piano piano, il sentiero per la rinascita.
Partendo da una telefonata fatta a un caro amico, il poeta Davide Rondoni, a
cui chiede aiuto per uscire dalla routine quotidiana del bere e per impegnarsi
in qualcosa, qualsiasi cosa che sia in grado di tenerlo lontano dalla sua
condanna (la bottiglia).
La sua richiesta viene presto esaudita e nel giro di
pochi giorni trova lavoro in una cooperativa di servizi dell’ospedale pediatrico
Bambin Gesù di Roma. Sarà proprio questo lavoro a fortificare la fiamma vitale
del protagonista, riconnettendolo con la sua capacità di incidere sulla realtà
circostante, trasformandola, ripulendola di tutto ciò che di impuro e di sporco
ne contaminava il suo aspetto originario. È così che nella narrazione di
Mencarelli il lavoro risplende nella sua essenza più profonda, che travalica il
mero significato economico di semplice prestazione d’opera remunerata, per
configurarsi come prolungamento di sé nel mondo, come luogo elettivo di
espressione e di realizzazione dell’umanissimo bisogno di sperimentare la
propria potenza, impegnandosi quotidianamente nella trasformazione
dell’esistente. Da questo presupposto, il lavoro è esente da ogni gerarchia di
valore e anche quello apparentemente più umile, come quello dell’addetto alle
pulizie svolto dal protagonista, diventa una preziosa occasione di compimento di
sé e di espansione dei propri confini, che si rinnova giorno dopo giorno
attraverso il sacrificio e l’impegno quotidiano.
Ma la rinascita di cui parla
Mencarelli non è fatta di solo lavoro, ossia delle cose di cui si è individualmente
capaci, ma anche degli altri e degli infiniti riflessi che la relazione
quotidiana con essi suscita. E tra questi altri ci sono i piccoli pazienti del
Bambin Gesù, testimoni di un calvario ingiusto e spesso senza scampo, talmente
potente da suscitare nel protagonista una disperazione che non si contrae su se
stessa ma si trasforma in una corrente ascensionale che approderà in parole
lucenti, assolate, le parole della poesia, le uniche in grado di far sì che il
loro dolore non resti muto, che la morte non diventi fine assoluta.
E tra
questi altri vi sono anche i colleghi di lavoro, persone in apparenza
diffidenti eppure capaci di accoglienza autentica, di ascolto sincero e di
autocritica sana. Saranno, infatti, i colleghi che, grazie alla loro capacità
di entrare in relazione con il nuovo arrivato (il protagonista), sapranno
abbattere le diffidenze iniziali per costruire insieme a lui un’alleanza
solida, intrisa di qualcosa che, forse, è la vera medicina: il senso della
fiducia.
È proprio di fiducia che si compone il sentiero della rinascita di cui
parla questo libro, percorso da uno stile lucido, limpido, in cui la parola è
in grado di penetrare fino al fondo del dolore per depurarlo dai suoi aspetti
confusivi e risalire madida di senso, elegantissima, puntuale - nella sapienza
con cui Mencarelli sceglie le parole e le incatena tra
loro si avverte la sua familiarità con la scrittura poetica - per testimoniare
ai lettori che la fiducia è una costruzione, lenta, quotidiana, complessa fatta
di tante cose e, soprattutto, della volontà di farle accadere.
Barbara D'Amen
Barbara D'Amen