di Silvia Truzzi
Longanesi, 2018
pp. 272
pp. 272
€ 16,40 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
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Bologna, una stanza di ospedale. Margherita è orfana di tante cose: del padre, buono e amatissimo, morto otto anni prima; di Francesco, compagno di vita per cinque anni, che l'ha lasciata improvvisamente; è orfana della salute, in seguito a un terribile incidente che l'ha quasi uccisa e che il dottor Iodice, lo psichiatra che la segue, sembra considerare una conseguenza diretta del suo stato depressivo; è orfana soprattutto di stabilità e fiducia in se stessa. Ha trentaquattro anni, sta per compierne trentacinque, e sente che non si riprenderà mai più.
Anna invece di anni ne ha settantasei. Nonostante il femore rotto, balzella allegramente in giro per i corridoi dell'ospedale, è corpulenta, indossa bigodini e vestaglie rosa ed è tutto ciò che Margherita detesta; si ostina nel chiamarla "bambina mia", ottenendo in cambio risposte al limite dell'educazione ("Intanto non sono una bambina e non sono sua. E nemmeno sono disperata. Lei in compenso è una donna testarda e invadente.").
Margherita è ferita e a stento sopportabile, nel suo tentativo di allontanare chi le sta intorno per sentirsi meglio. È impossibile per il lettore provare empatia per la protagonista, al principio del libro, e l'autrice si impegna attivamente e con successo per raggiungere questo risultato: nonostante la sua fragilità, Margherita risulta astiosa e antipatica, per come si pone e per come emerge (si fa emergere) dalla descrizione che lei stessa, narratrice, fornisce di sé. A poche pagine dall'inizio, la ragazza indispone per come tratta la madre, o i medici; innervosisce per il mancato rispetto di sé, per il modo in cui si umilia con e per Francesco, per tutti gli anni passati a sminuirsi e a cercare di compiacerlo, perché rischia (o accetta) di morire a causa sua.
Tutte le mie energie nei cinque anni in cui siamo stati insieme sono state utilizzate per non sembrare, né a Francesco né ai suoi amici, una rompicoglioni. Perché non c'è nulla che fa scappare un uomo come il sospetto che la sua fidanzata sia una rompicoglioni. [...] E io Francesco me lo volevo tenere, più di qualunque altra cosa abbia mai avuto o desiderato.
Francesco diceva, decideva, desiderava, e le cose succedevano. La mia amica Agata sosteneva che per me dopotutto era facile, più difficile fare scelte proprie. Detto tra noi, a me sembrava una cazzata: semplicemente, adoravo fare qualunque cosa con Francesco e desideravo compiacerlo. Ogni sua felicità era una mia felicità. Amore o annullamento?
Eppure Anna disinnesca, poco alla volta e suo malgrado, la sua carica caustica: "la vecchia se ne stava lì, con i suoi patetici pizzi. E il suo intero essere, rosa. [...] Mi guardò spalancando gli occhi celesti, troppo grandi, improvvisamente dolcissimi". Lo fa dicendo la verità in modo diretto, senza troppe riserve: "Sai, bambina, anch'io ho una figlia cattiva. Sempre arrabbiata". Ma soprattutto: "Io ti guardo tutto il giorno. Tu pensi sempre alle stesse cose. Pensi che la tua vita non ha senso senza quel Francesco. Che tutto fa schifo. Tua madre, non parliamone. Sai solo star male. Ma guarda che star bene è più difficile che star male".
Insieme all'anziana, irruenta e chiacchierona, ancora debordante di gioia di vivere, anche noi impariamo, per vie traverse, a conoscere meglio la protagonista, a capirla un po' di più. Iniziamo a sondare i margini della sua interiorità in conflitto, scopriamo nuovi dettagli sul suo passato. Li vediamo emergere faticosamente dallo scontro con un altro passato, quello straripante, colorato (anche se non sempre roseo), espansivo della signora Anna. Pagina dopo pagina, entrambi i personaggi acquisiscono spessore. Ma, fino a questo punto, l'interesse è superficiale, il romanzo scivola via con la piacevolezza della lettura estiva. È solo a un certo punto che, in maniera quasi inavvertita, scatta una scintilla: la lettrice si trova di fronte a qualcosa che riconosce, una forte sensazione di déjà-vu che la riporta al passato, a un proprio dolore, un proprio momento di rottura. Ed ecco che improvvisamente arriva l'immedesimazione e non si può più restare neutrali. Si perdona a Margherita la sua rabbia, visto che lei sembra incapace di perdonarla a se stessa. Si comprende il suo bisogno di proteggersi, la sua insicurezza, la sua paura. Margherita, in qualche modo e in percentuali variabili, è un po' tutte noi. Ecco perché Fai piano quando torni è un romanzo intensamente femminile, in cui i maschi svolgono una funzione secondaria, quasi contrappuntistica. Al centro c'è invece il bisogno della donna di trovare il proprio posto nel mondo, attraverso esperienze e relazioni (talvolta, le une e le altre, negative, ma non meno fortificanti e necessarie). Margherita e Anna si incontrano in una comune forza sotterranea, che nella anziana signora ha già trovato il modo per divampare in decisione e risolutezza, mentre nella giovane sta scavando il suo tracciato. Il romanzo di Silvia Truzzi ci parla con sensibilità di rinascita e seconde occasioni (che non sono mai quelle che ti aspetteresti e non avvengono mai nel modo in cui te le aspetteresti, nel testo come nella vita). La trama, ricca di risonanze e citazioni letterarie e musicali, a tratti deliziosamente inverosimile, si arricchisce di uno scavo profondo ed efficace della psicologia dei personaggi, offrendo un quadro preciso della depressione e delle sue insidie.
Qualcosa si era inceppato molto tempo prima. [...] Non avevo colto nessun segnale, nessun allarme, nessun indizio. Era un dolore riservato che, tra una causa e un cinema, non faceva rumore. Quando cominciò a scricchiolare pensai che le feste, i weekend fuori, le cene fossero un buon modo per tappargli la bocca. Ma arrivava sempre il mattino dopo [...]. Vivevo attraversata da un'onda sismica, una continua vibrazione sottotraccia. Come chi aspetta un disastro, chi guarda uragano che arriva. [...] Avevo dentro un'eccitazione distruttiva che mi teneva sveglia, con il cuore sempre accelerato. Finché non mi schiantai davvero.
Conquista inoltre la capacità dell'autrice di strappare al reale singoli momenti intensi, o dettagli cromatici, che consentono al lettore una piena interiorizzazione della vicenda. Il viaggio a Napoli, sulle tracce di un vecchio (e forse di un nuovo) amore spalanca scorci commoventi sui cieli del Sud. Mostra nel linguaggio, nell'aprirsi degli scenari, nella brillantezza dei colori, il ritorno alla vita, che avvicina una volta per tutte l'ombrosa Margherita alla sua attempata amica.
La signora Anna [...] è una di quelle persone indistruttibili. Ma non perché ha scelto solo se stessa, o perché non sente. Perché è, naturalmente, viva. Dice sì, mai no. Si avvicina e non si allontana. Non cerca una giustificazione della sua esistenza, se non nei minuti della sua vita. Non guarda gli altri per vedere nelle loro mancanze le sue vittorie. È. Solo questo. Le piace vivere. Mangia, ama, fuma. Io, trentaquattro anni, pelle d’avorio e gambe sottili, molti soldi e la vita davanti, venderei l’anima per essere lei.
L'esordio narrativo di Silvia Truzzi ci lascia pienamente convinti, e anche un po' commossi. È un esordio all'insegna della tenerezza e dell'accudimento, centrali nella trama e richiamati anche dal titolo, mantra rassicurante in una relazione, segnale che anticipa e presagisce la certezza del ritorno. Per capire di quale ritorno, di quale accudimento si parli davvero (e non è certo il più ovvio), si raccomanda la lettura del libro.
Carolina Pernigo
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