di Paolo Zardi
Feltrinelli, 2018
pp. 174
€ 15 (cartaceo)
Piccola premessa.
Ho conosciuto Paolo Zardi, come probabilmente molti di noi, attraverso XXI secolo (2015). Di quel libro, come ho avuto modo di dire all'autore stesso, ho apprezzato di più (molto di più) l'atmosfera e l'ambientazione "quasi post apocalittiche" che la trama o i personaggi.
Poi sono tornato indietro e ho voluto leggere i suoi racconti, pubblicati in Antropometria (2010) e Il giorno che diventammo umani (2013): il primo è del 2010 ma conteneva già, in nuce, tutto ciò che sarebbe venuto. Compreso il suo ultimo romanzo, pubblicato lo scorso anno, La passione secondo Matteo (2017); segno questo di un percorso forse già chiaro dall'inizio, un percorso fatto di temi e atmosfere delineate ma, soprattutto, di una voce unica. È forse troppo affermare di poter riconoscere un testo "zardiano"? Non lo so, ma non credo di essere molto distante dalla verità.
E ora veniamo a Tutto male finché dura. Se La passione aveva come fulcro la questione etica dell'eutanasia, e di fatto era un romanzo basato sulla trama e sui personaggi, a mio avviso quest'ultimo testo torna a concentrarsi sulle "atmosfere da XXI secolo" tanto care a Zardi; il quale, proprio come Elisa, la figlia del protagonista, sa fotografare alla perfezione questo nostro secolo iniziato da appena diciotto anni e già saturo di avvenimenti.
Perché diciamocelo tutto: in un romanzo come questo la trama è una scusa per raccontare di noi esseri umani, che viviamo in un presente che sembra aver smarrito l'identità, un lungo presente alla fine di un novecento che si dice sia stato glorioso ma poi ha visto i peggiori drammi dell'umanità. Nelle metropoli zardiane, infinite periferie lontane anni luce dai centri in cui vivono le persone che ce l'hanno fatta (ma chi sono poi? Non le vediamo mai), bazzica una popolazione ammassata e preda degli istinti più inutili, il cui istinto di sopravvivenza si riduce alla ricerca di un bene temporaneo ed effimero come l'accaparrarsi la parte migliore del buffet durante l'inaugurazione di un (altro) centro commerciale.
I personaggi zardiani sono spesso sopraffatti della propria miseria: lontani dai grandi eroismi ottocenteschi, e persino più disagiati degli inetti di inizio novecento, sembrano appena sopra la soglia della consapevolezza. Agiscono, mangiano, si riproducono ma senza un vero fine. Sono lo scarto non della borghesia e del proletariato, ma di una nuova forma di "stato" che nessun messaggio ha da professare.
Eppure, citando De André, anche dal letame di una generazione di sconfitti, abituati alla crapula del secondo novecento e catapultati nella realtà della crisi nera, possono nascere i fiori di qualcosa di nuovo. Allora se i due genitori della storia sono due falliti che nessuno (a parte Zardi) vorrebbe come protagonisti, ecco che le due figlie rappresentano la speranza, la creatività, l'intelligenza. Un futuro meno cupo rispetto alla distopia grigia che emerge da ogni pagina.
Fra strade abbandonate a se stesse, città fatiscenti e una degradazione culturale da tardo medioevo, ecco emergere la lucidità di Zardi. Come sempre le sue storie ci costringono a guardare il signore seduto accanto a noi sulla metro e a constatare quanto le sue pezze sui pantaloni, i suoi occhiali rotti, le sue ferite siano in realtà le nostre.
E allora la domanda che resta è: che fare?
David Valentini