L'isola di Sachalin
di Anton Čechov
Adelphi Edizioni, 2017
pp. 457
€ 22,00
Saliamo sul traghetto. I vogatori, sempre inveendo, si mettono ai remi. Non sono contadini del luogo, bensì deportati, condannati dalla società per la loro esistenza depravata e spediti fin qua. Nel villaggio dove sono registrati non riescono a stare [...] e così sono venuti qui, a traghettare la gente. E che espressione hanno in viso! Si capisce che mentre venivano portati qui sulle chiatte per i detenuti, ammanettati l'uno all'altro, e poi a piedi, in colonna lungo la strada maestra, pernottando in izbe divorati vivi dalle cimici, questi uomini si sono induriti fino al midollo [...] In questo mondo non sono più uomini, ma animali, e in quell'altro - così dice il nonnetto - se la vedranno brutta: andranno all'inferno per i loro peccati.
"Perché non andare a Sachalin?", si chiede Anton Čechov nel marzo del 1890.
Annoiato dalla borghese vita moscovita, angustiato da delusioni sentimentali e da una personale ricerca letteraria che fatica a sposarsi con l'esercizio della medicina, o forse spinto dal desiderio di difendersi da un'accusa di indifferentismo sociale mossa dal critico Michajlovskij, decide in quell'anno di affrontare da solo un viaggio ai confini dell'Estremo Oriente russo.
Sachalin è una regione insulare nell'oceano Pacifico settentrionale, allora sede di una colonia penale - la katorga - istituita dal regime zarista vent'anni prima del suo viaggio.
Il trentenne Čechov, che ha già ricevuto i primi riconoscimenti letterari, difende in una serie di lettere e di scritti un progetto che ai più appare folle: raggiungere l'isola per studiare le condizioni di vita dei deportati, raccontare cosa succede ai confini delle grandi città illuminate dalle luci dei caffè e dalle parvenze dei dibattiti sociali.
Scettico sulla possibilità di colpire davvero l'intellighenzia russa (Potapenko, amico dello scrittore, lo definisce "il più inutile dei viaggi"), Čechov non ha dubbi, però, sulla propria volontà di offrire un contributo concreto diventando testimone di quanto avviene a Sachalin, dove milioni di rubli sono stati spesi per far "marcire in prigione milioni di uomini [...] invano, senza criterio, barbaramente".
11.000 kilometri e 8 mesi di viaggio - da aprile a dicembre 1890 - per scoprire l'inferno della colonia penale che si rivela tale sin dalle prime tappe del suo itinerario transiberiano, dalle visioni delle chiatte che si arenano tra isolette tra cui è impossibile navigare, bloccate nella melma della bassa marea e circondate da pianure e sponde deserte da cui ogni forma di vita prova a fuggire, a eccezione dei deportati. Čechov si mette in cammino nel maggio più freddo degli ultimi cinquant'anni e il gelo, la pioggia che sferza le imbarcazioni e il vento che non lascia tregua diventano un correlativo oggettivo della tirannia zarista che ha trasformato quell'angolo di mondo in uno stato parallelo dove la giustizia non esiste.
Figlio di questa missione siberiana, L'isola di Sachalin - nell'edizione Adelphi 2017 a cura di Valentina Parisi che firma anche una pregevole postfazione - è un testo arduo da approcciare: un reportage in cui confluiscono gli studi medici dell'autore e il suo interesse primario per le condizioni igienico-sanitarie della colonia, le analisi geografiche, i referti, le cronache, i bollettini, i censimenti. Tutto materiale intervallato dal racconto degli incontri con i personaggi in cui Čechov si imbatte: funzionari, governatori, coloni, deportati.
I temi del libro sono sistematizzati in uno schema quasi accademico (gli appunti dovevano confluire in una tesi di dottorato, scrive Parisi), ma il lettore fatica a individuare un ordine in un sistema che non ce l'ha: le tabelle anagrafiche con i risultati dei censimenti o la registrazione delle temperature minime raggiunte sono dati che non permettono da soli di arrivare alla radice di quel non luogo e alla definizione della vorticosa sofferenza di esistenze al limite. Tra i grandi temi degli incontri di Čechov c'è il tempo: i deportati di Sachalin difficilmente sanno indicare l'anno in cui sono arrivati sull'isola. "Se il discorso cade sul passato, in genere esordiscono: quando vivevo in libertà...", ma la libertà appartiene a un'epoca impossibile da definire. C'è un prima e dopo Sachalin, ma nel dopo il tempo si è fermato.
Per questo le relazioni tra Čechov, che arriva dall'esterno, e i sachalinesi sono talvolta scandite da dialoghi impossibili: due uomini a confronto, una stessa lingua, ma un divario di esperienze umane che il viaggio da solo non basta a colmare.
Non mancano i momenti in cui l'incontro dà però luogo a scambi commoventi, come quello con Egor, un galeotto colpevole di omicidio che presta servizio da un'anziana signora dell'isola, "un tipo goffo, un po' tardo [...] con un viso bonario e in apparenza sciocco e la bocca larga come un pesce castagna":
"Solo che adesso Vostra Eccellenza, non ho tempo di parlare con te, perché devo andare a prendere l'acqua". "Diventerai colono presto?" "Tra cinque anni". "Hai nostalgia di casa?" "No. Ecco... Solo per i bambini mi dispiace. Sono piccoli e sciocchi." "Dimmi, Egor, a cosa pensavi quando a Odessa ti hanno messo sulla nave?" "Pregavo Iddio" "E che cosa gli hai chiesto?" "Che mandasse ai miei figli tanta tanta intelligenza".
Ovunque regna un tetro silenzio di morte e la natura appare illogica: Sachalin non è un posto dove essere umani. Tra la cronaca e lo studio, la letteratura si fa spazio e prende corpo nelle metafore che descrivono i paesaggi (le onde che ruggiscono, l'eco della risacca), le persone (le contadine che si legano intorno al capo le foglie di bardana e che somigliano a scarabei verdi), gli spazi e i fenomeni (i cavi del telefono che ronzano). Nonostante tutto la bellezza c'è ancora, anche se sommessa e malinconica come l'immagine di un fuggiasco con in spalla una bisacca e una gamella che si fa largo - piccolissimo - tra la taiga possente che vince sull'uomo.
Il testo è quasi impossibile da inquadrare in un genere: non era del tutto letteratura scientifica, non era solo reportage di viaggio, non è apparso sufficientemente "letterario" ai critici dell'epoca.
È tutto questo insieme, con quell'attitudine tipicamente cechoviana di indagare la natura umana a partire dalle sue condizioni profonde: sociali, economiche, relazionali, politiche, emotive.
Per lo scrittore che anni dopo, nelle sue opere mature, si metterà a lottare corpo a corpo con questa indagine dell'uomo, il viaggio a Sachalin è stata una prova prima di tutto con se stesso, un tentativo freddo e rassegnato di denuncia di un sistema ingiusto e corrotto.
Alla fine del libro resta addosso la stessa fatica (perché sì, è una lettura molto faticosa che richiede tempo e attenzione alle note) e la malinconia dell'autore di ritorno dal suo viaggio: ho appreso tanto di Sachalin, ma non arrivo fino in fondo all'essenza di quel luogo.
Finisco di leggere la descrizione del lazzaretto di Aleksandrovsk e mi torna alla memoria il finale di Zio Vanja, tra i più belli della letteratura, con quel suo "vivremo una lunga, lunga sequela di giorni e di interminabili sere; affronteremo pazientemente le prove che il destino ci manderà, adesso e in vecchiaia, senza conoscere riposo."
Rivedo Sonja e lo zio, nati anni dopo dall'immaginazione di Čechov, nelle contadine e nei coloni che ho incontrato a Sachalin. E mi consolo con loro e con la visione di un cielo cosparso di diamanti dove la misericordia, come una carezza quieta, colma di sé tutte le cose del mondo.
"Io credo, zio, credo ardentemente, appassionatamente… Riposeremo! Sentiremo gli angeli, vedremo il cielo cosparso di diamanti, vedremo tutto il male della terra, tutte le nostre sofferenze annegare nella misericordia che colmerà di sé il mondo, e la nostra vita diverrà quieta, tenera, dolce, come una carezza.
Io credo, credo... Povero, povero zio Vanja, tu piangi... Non hai conosciuto gioia nella tua vita, ma aspetta, zio Vanja, aspetta... Riposeremo... Riposeremo!”
Claudia Consoli