Residenza Arcadia
di Daniel Cuello
Bao Publishing, 2017
pp. 172
€ 20,00
“Se non puoi uscire dal tunnel, almeno arredalo”: chi non ha orecchiato almeno una volta questa battuta? Gli inquilini di Residenza Arcadia, protagonisti della graphic novel di Daniel Cuello, sembrano addirittura avere assunto questo cinico adagio come regola di vita. Con un’aggravante: essere totalmente privi di autoironia e dunque affatto consapevoli che il palazzo in cui abitano non è un Eden, bensì la summa perfetta dei sottostanti gironi purgatoriali. O forse no. Forse sanno perfettamente come stanno le cose e fanno di tutto per dimenticarlo, compiacendo così un misterioso “partito”, il Partito, che ha ben chiaro da che parte stiano la ragione e il torto, la virtù e il vizio. Del resto sono anni che una routine obbediente e condivisa deposita sui rispettivi appartamenti strati e strati di rassicurante consuetudine, silente come la polvere e come la neve (che, proprio come la morte, pareggia ogni cosa). Perché gli abitanti di questo condominio sono vecchi, talvolta addirittura vecchissimi, di una vecchiaia sempre in bilico tra saggezza e follia, rassegnazione e disperazione. Finché un fatto inatteso – cioè l’arrivo di una famiglia sgradita, pronta a stabilirsi nell’appartamento che una volta fu dei coniugi Falini – non mina dalle fondamenta quello stato di pace armata che li tiene incollati ai rispettivi spioncini.
Sono tutti necessariamente complici, gli inquilini di questo palazzone. Tutti d’accordo nel dire il proprio sonoro “NO” all’avvento della sgradita novità. A nulla serviranno le ragionevoli argomentazioni di un pacato (e disprezzato) amministratore venuto a fare le veci del più allineato professionista in carica (il bravo Attilio), e che si ritrova a gestire un microcosmo in cui, fin dalle prime pagine, i misteri irrisolti e i segreti più inconfessabili si alternano a piccole beghe pratiche tra condomini (come non immedesimarsi in tanto prosaico tran-tran?) e assemblee animate da slanci di pura surrealtà. Nulla può il sostituto contro l’ostinazione di personaggi dalla nominazione singolare – Mirta, Dimitri, Emilio, Dirce, Ester… – ciascuno alle prese con ossessioni private, dolci ricordi e malesseri capaci di scucirne il cuore come bambole di pezza. E quando alla fine, in prossimità di una grande e imminente Parata, verrà presa una decisione dalla quale non sarà più possibile tornare indietro, a tutti (e specialmente al lettore) non resterà che meditare sul senso di tanta cocciuta ostinazione, per poi concludere che forse sì, forse è proprio vero che «certe persone, pur di seppellire il dolore, seppelliscono ogni cosa». Ma sbagliano?
Daniel Cuello non poteva essere più bravo nel raccontare una storia in cui l’ordinarietà più seccante e la distopia più pura si fanno portatrici di domande colossali, per le quali, da tempo immemore, sarebbe necessaria una risposta “urgente”. Lo fa con quello stile tra l’espressionistico e il grottesco che è diventato la sua cifra più riconoscibile e “affettuosa” (ovvero umoristica), grazie alla quale anche sui lati abietti, deformi e intollerabili dell’esistenza sembra sempre sfuggire una carezza di compassione (previo scatto spontaneo di stizza assoluta). Le tavole di Residenza Arcadia hanno un taglio e un montaggio cinematografico mirabile, efficacissimo, con angolazioni dall’alto e dal basso che sembrano proiettare gli ingestibili vecchietti in un film di Orson Welles, e una tale insistenza sui dettagli e sulle variazioni minime che cela uno sguardo autoriale letteralmente “occhiuto”. Basta un taglio dell’inquadratura un po’ più violento, o una successione rapida di vignette solo apparentemente identiche, che davanti al lettore si spalancano abissi – leggi: trombe delle scale – fitti di solitudine, frustrazione e macchiavellismo da pianerottolo. Un po’ come accade per la scelta dei nomi, caratterizzati da una stravaganza “transitiva” che dai padroni si riflette sui rispettivi animali da compagnia: così Mirta vive con Ortis, un canarino dalla salute “cagionevole”, mentre Dimitri divide l’appartamento con il minuscolo (e ovviamente chiassosissimo) cagnolino Rasputin. E che dire dell’ambigua Ester, oppure di Ettore, il nipote di Emilio e Dirce, il cui nome da eroe epico pesa come un supplizio tantalico sulla sua indole ostile e contrasta non poco con il suo mood esistenziale tra il gotico e il metal?
Anche per questo, a fine lettura, il vero tocco di genio del volume si conferma legato alla questione puramente onomastica del suo titolo. Perché poteva avere un qualsiasi altro nome – magari Bellosguardo, oppure Bellavista (e via contemplando…) – ma il fatto che questa Residenza si chiami proprio Arcadia non solo porta con sé tutta l’ambiguità e il malinteso di un termine dalla lunga tradizione interpretativa, ma ci costringe, di fatto, a una resa nei confronti di una “discordia del giudizio” che appare quasi ontologica, una disarmonia ostinata e vincente su ogni pur volenteroso tentativo di conciliazione. La dicotomia è più che palese: il palazzo abitato dagli inossidabili vecchietti appare ai loro occhi un hortus conclusus di perfezione non discutibile e non negoziabile, mentre a chi vi si addentra anche per poco – un sostituto-amministratore, un giovane ribelle, noi lettori – sembra un alveare grottesco, ronzante di discorsi inconcludenti, deliranti e avulsi dal contesto, alla stregua di certe degenerazioni del fenomeno letterario seicentesco divenute (anche nel linguaggio comune) sinonimo di oziosità, sterilità e compiacimento. Per paura dell’altro e dell’altrui. Per scetticismo nei confronti del fuori, del diverso, del nuovo. Per comodità. Oppure per un dolore o un trauma mai davvero superato. Se il lavoro di Daniel Cuello è così efficace è perché l’autore è interessato proprio al perché ci si ottunde, alle ragioni per cui ciò accade; ragioni troppo ovvie per essere vere oppure talmente astruse da far sospettare della loro plausibilità, proprio come i “sentimenti e ragionamenti” che tutti ci siamo trovati a fare più e più volte nella vita, nelle nostre quotidiane “distopie”. Varrà la pena di tenere a mente Residenza Arcadia e i suoi inquilini tutte le volte che scambieremo il nostro gabinetto personale per un paradiso terrestre, o avremo a che fare con qualcuno che, con maggiore o minore consapevolezza, lo farà al posto nostro: per guardare noi stessi con più autoironia, e gli altri con più immaginazione. Possibilmente, mai più attraverso lo spioncino.
Cecilia Mariani