Il filo e le tracce. Vero, falso, finto.
di Carlo Ginzburg
Feltrinelli, 2006
pp. 340
€ 13,38 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
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Scrivere di storia è possibile
non limitandosi ai documenti d’archivio. Lo
storico non è un eremita sommerso dalle carte, è un vivo narratore del
verosimile. Come un romanziere. Solo che il romanziere, lungo il continuum
del verosimile può permettersi di stare in fondo alla scala, lo storico deve
avere la pretesa di salire il più in cima possibile. Altrimenti non è
credibile. E per farlo deve prendere in considerazione una varietà di fonti,
come ha ammonito Lucien Febvre (co-fondatore degli “Annales” insieme a Marc Bloch).
Al limite accontentarsi di casualità
e anomalie.
Quindici saggi più un appendice,
ripropongono, attraverso argomenti
complessi ed eterogenei, la forza intellettuale di Carlo Ginzburg, i suoi percorsi
alternativi di ricerca. Narrazioni di finzione e narrazioni storiche si
combattono senza che una delle due emerga come vincitrice, piuttosto la loro è
una contesa per la rappresentazione della realtà. Nessuno pensa che sia inutile
studiare false leggende, falsi eventi, falsi documenti: «ma una presa di
posizione preliminare sulla loro falsità o autenticità è, ogni volta,
indispensabile». Occorre dunque interrogare
i testi, scavare dentro di essi per far emergere elementi incontrollati. La
ricerca di tali elementi rappresenta il filo rosso che lega tra loro i capitoli
del volume.
L’esempio migliore dopo questa
premessa ce lo offre proprio Ginzburg quando si sofferma sul suo oramai noto lavoro sui benandanti nato per caso a Venezia,
dove c’è un ricco fondo inquisitoriale conservato all’Archivio di Stato. Qui
l’autore si imbatté del benandante Menichino da Latisana. L’inquisitore chiese
a Menichino che cosa volesse dire benandante
e Menichino replicò: siamo nati con la camicia, quattro volte all’anno ci
rechiamo in spirito nel prato di Iosafat a lottare con le streghe per la
fertilità. Tra un documento rinvenuto casualmente e le aspettative e le
reazioni di chi stava svolgendo la ricerca nasceva così l’interazione decisiva
in grado di condizionare il lavoro successivo.
Così, mentre legge i processi inquisitoriali,
Ginzburg spia i giudici e le vittime:
i loro gesti, i loro silenzi, le reazioni quasi impercettibili come un
improvviso rossore e, ancora, la confusione che regna sovrana nell’immaginario,
ad esempio, di due donne milanesi processate nel 1390. Le quali, nelle deposizioni,
identificano il nome di Diana con quello di Herodiade o Madonna Horiente. A
quel punto gli inquisitori cercano di portare le donne a confessare ciò che essi
interpretano come varianti locali di un’unica dea femminile legata al mondo dei
morti. Interpretazione che arriva a loro attraverso testi conformi alla cultura
ecclesiastica acquisita e ovviamente sconosciuti alle due presunte streghe.
Gli inquisitori volevano capire:
a scopi persecutori, particolarmente
disdicevoli, ma, se vogliamo, antropologicamente
moderni. Sulla base di queste suggestioni, e ricerche rigorose, Ginzburg ha
finito per abbandonare, o meglio superare, la sua ipotesi iniziale dei processi
di stregoneria come primordi embrionali della lotta di classe.
Setacciare le fonti,
interrogarle, senza sottrarsi ai cammini più ardui e perfino labirintici. D’altronde, sempre
seguendo Carlo Ginzburg e il suo saggio pubblicato da Adelphi nel 2015 dal
titolo “Paura reverenza terrore”, qui recentemente commentato, i linguaggi e le immagini della politica, quindi
in ultima analisi della storia, arrivano ai moderni sotto forma di menzogne. Tornando a “Il filo e le tracce”, gli spunti sono innumerevoli: cito l’attenzione
alla microstoria, un modo
di osservare che utilizza strumenti artificiali in grado di potenziare lo
sguardo e raggiungere snodi invisibili a prima vista. L’esperimento
morfologico che conduce la storia a fare i conti con discipline che parrebbero
distanti, come le ricerche iconografiche. L’attenzione
ad autori come Flaubert, Tolstoj e Proust, maestri di “spazi bianchi”, di
“tempi perduti e ritrovati”, che sono stimoli riempitivi che permettono di dischiudere nuovi spazi alla
narrazione: sono porte di accesso, frammenti mancanti, spiragli non
trascurabili. Oltre le fonti e la loro veridicità
resta dunque un’impresa non facile, tuttavia indispensabile se vogliamo
conoscere il destino del filo oltre che quello di Arianna, Teseo e il
minotauro.
Marco Caneschi
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