Foto di ©Daniela Zedda |
Estate 1994. Come ogni anno ero in vacanza con la mia famiglia nelle Marche, per far visita ai parenti di mia madre: nonni, zii, cugini, una banda che rappresenta bene la metà del mio patrimonio genetico. Il nonno era mancato da pochi mesi ed ero più schivo del solito. Un po’ asociale lo sono sempre stato, ma in quell’agosto sentivo un vuoto che non riuscivo a definire. Era il mio primo contatto con la morte. Non so se per questa ragione o solo perché mi vide frugare affamato negli scaffali della sua libreria con i fumetti della Sergio Bonelli, mio zio entrò una mattina in edicola e ne uscì con due copie dell’albo 95 di Dylan Dog: una per lui e una per me. Con enorme sorpresa di mia madre, che non riusciva a scalfire la mia diffidenza, quelle 98 pagine di fumetto sono state la prima lettura completa di cui ho consapevolezza e memoria. Da allora, il personaggio di Tiziano Sclavi non mi ha mai abbandonato ed è uno dei tanti rivoli sotterranei che mi lega indissolubilmente a quel fazzoletto di terra nel cuore dell’Appennino umbro-marchigiano.
Questa premessa personale per dire e giustificare al lettore i toni e l’andamento dell’intervista che segue a Pasquale Ruju, il più prolifico sceneggiatore di Dylan Dog, creatore della serie Demian che ho amato e che mi ha proiettato nell’universo di Jean-Claude Izzo, oggi sceneggiatore di Tex e autore di due romanzi noir per i tipi delle Edizioni E/O, Un caso come gli altri e Nero di mare (prima uscita della serie Zanna). Il terzo, Stagione di cenere, sarà in libreria dal 13 giugno e verterà sulla mafia degli incendi, uno dei volti meno conosciuti della criminalità organizzata.
DOMANDA: Come ha influito l'esperienza in Bonelli nella tua formazione di scrittore? RISPOSTA: Scrivere è una cosa che ti porti dentro dalla nascita. Devi avere la passione per il racconto, un pallino – qualcuno lo chiama talento – per la narrazione che può non riguardare sola forma o un solo genere. Si tratta, quindi, di declinare il modo di raccontare secondo il ‘medium’ che stai utilizzando. Sceneggiare i fumetti è un po’ come essere sceneggiatore e regista cinematografico allo stesso tempo. Decidi tu la scansione della storia, il suo ritmo, le sue sequenze, i dialoghi, e cerchi di trasmettere le tue idee al disegnatore, che darà vita alle scene e ai personaggi, diventando lui stesso co-regista, oltre che direttore della fotografia. Il passaggio al romanzo è da un lato più semplice, dall’altro più complicato: conosci alcuni trucchi del mestiere, tra cui il più importante che è quello di catturare e mantenere l’attenzione del lettore. Una risorsa che puoi trasportare nel al romanzo. Per quanto mi riguarda nel passare alla ‘scrittura pura’ una cosa difficile è stata trovare il tempo. Una volta cominciato, poi, ho capito che c’era da rimettersi in gioco. Anche se sempre con la tastiera, mi trovavo a fare un mestiere diverso. Per esempio: nel fumetto lavori con un altro professionista, il disegnatore, quindi come ho appena detto devi dargli tutti gli elementi nei dettagli. Descrivere ogni personaggio, ogni sfondo, ogni particolare. Al lettore di romanzi no, perché sarà proprio il lettore ad aggiungere volti e corpi, arredi e paesaggi alle tue righe. Ogni lettore - o lettrice - trarrà il proprio ‘film’ dal tuo romanzo. Non serve riempire di particolari la descrizione di una scena, basta fargli avere gli elementi giusti e lasciare che sia la sua fantasia a creare il resto. Per questo, a un certo punto è necessario dimenticarsi il mestiere di sceneggiatore e lasciarsi andare al flusso del racconto.
D: Da sceneggiatore hai lavorato su personaggi non tuoi, ma creati da altri artisti, il più noto Dylan Dog di Tiziano Sclavi. Come si lavora su un personaggio che non è tuo?
R: Bisogna fare un lavoro di stampo ‘teatrale’, simile a quello dell’attore: è importante interiorizzare il personaggio, proiettarti dentro di esso, in modo quasi stanislawskijano. Poi, fatto questo, dimenticare ciò che hai imparato e provare a lavorare in maniera libera. A modo tuo. Nel caso di Dylan Dog, ogni autore della serie sa che il loro lavoro non deve essere una brutta copia del personaggio di Sclavi, ma deve avere un’impronta personale senza tradire i canoni creati da Tiziano. In questo modo puoi rendere un buon servizio al lettore. Con Tex è un po’ la stessa cosa, anche se il carattere del personaggio è ancora più roccioso e i paletti più stringenti.
D: Qual è, secondo te, il contributo che serie come Dylan Dog o Demian hanno dato alla letteratura? La vedi anche tu una influenza reciproca tra letteratura noir e fumetto o è solo una mia suggestione?
R: Ormai i vari media si nutrono l’uno dell’altro. Il fumetto è sempre stata una forma letteraria in cui confluiscono suggestioni di media differenti (cinema, musica, letteratura, arte, ecc.) e che di esse si nutre, per poi trasmetterle ai suoi lettori, intrigandoli. Dylan, per esempio, ha una sua libreria, ascolta determinati dischi e questo ha una influenza sul lettore, ne stimola la curiosità, sfida la sua voglia di apprendere e scoprire. Io stesso da bambino mi sono avvicinato ai fumetti, per poi passare ai romanzi di genere e alla grande letteratura. La cosa importante è leggere. Leggere, informarci, è ciò che ci permette di sviluppare un pensiero strutturato e ampliare i nostri orizzonti.
D: Nel capire il fenomeno mafioso la letteratura ha avuto un ruolo fondamentale. Il giorno della civetta è esemplare, non ci sono dubbi. Il noir, secondo te, può risvegliare una coscienza antimafiosa o c'è un rischio di fascinazione sulla scorta del cinema americano?
R: C’è un principio dietro a queste pubblicazioni, che poi è quello della collana Sabot/age diretta da Colomba Rossi e Massimo Carlotto. Si tratta di affrontare determinati problemi che ha l’Italia (come anche la Francia, il Marocco, la Spagna, la Grecia, ecc. C’è una comunanza tra i Paesi del Mediterraneo nel bene e nel male) e accendere un riflettore su questi problemi, fissarli nella mente del lettore. Spingerlo a pensare, a farsi delle domande, oltre che naturalmente intrigarlo e intrattenerlo. Il romanzo noir è una forma letteraria molto efficace nell’affrontare certi fenomeni, tra cui quello mafioso, ancora più di un film o di una serie televisiva. Nel romanzo puoi portare il lettore “dentro” il personaggio, far percepire i suoi pensieri, le sue pulsioni, la sua malvagità. Il fruitore del romanzo non ha davanti un attore, magari di bell’aspetto, con un taglio di capelli o un abbigliamento da imitare. Belle macchine o belle case da invidiare. Se fai bene il tuo mestiere puoi sbattergli davanti le dinamiche di una mente criminale e i loro effetti sulla realtà. Ancora una volta, puoi farlo pensare. Puoi spingerlo a farsi delle domande.
Marcello Nicotra [Un caso come gli altri, ndr] quando appare per la prima volta è un bel giovane, prestante e con un certo fascino. Poi via via ingrassa, si imbruttisce, si incattivisce, perché una vita da capoclan ti rovina, cancella ogni sfumatura di bellezza, interiore ed esteriore. Un’evoluzione, o meglio una involuzione, che volevo far percepire bene ai miei lettori. Un romanzo, se ben scritto, sa farsi ricordare forse più di un saggio o di un’inchiesta giornalistica. Contribuisce a tenere viva l’attenzione su temi come la criminalità organizzata. Aiuta a rammentare che questi problemi continuano a esistere e priva i clan di potenti armi di difesa come l’oblio, la distrazione, l’indifferenza.
D: Questa discrepanza tra romanzo e cinema/serie pensi abbia influito nella diversa ricezione e percezione di Gomorra? Il libro ha generato un turbinio di critiche, anche pesanti e negative.
R: La parola scritta è un’arma più affilata, non mediata. E Gomorra ne è l’esempio: nel libro Saviano fa nomi e cognomi, racconta i crimini e dice chi li ha commessi. È stato un libro necessario, calato nel suo tempo, di grande forza morale e civile. Il film e la serie che ne sono derivati, pur molto belli entrambi, non hanno avuto a mio parere la stessa efficacia.
D:Un caso come gli altri ha una struttura originale: si tratta di un interrogatorio sviscerato da un narratore onnisciente con lunghi flashback. Ricorda la prima parte de La verità sul caso Savolta, un classico del noir storico spagnolo. Il noir ha ancora forza di innovazione e rottura (stilistica, tematica, ecc.)?
R: C’è noir e noir. Secondo me la possibilità di una narrazione originale c’è sempre. La notiamo in alcuni autori, alcuni grandi e molto conosciuti, come Massimo Carlotto, Don Winslow, Jean-Claude Izzo, altri da scoprire come ad esempio Barbara Baraldi, Paola Barbato o il bravissimo Luigi Romolo Carrino. Non credo ci sia una crisi del noir, ci sono moltissime uscite, alcune più originali altre meno. Questo però succede in tutta la letteratura.
D: Hai esordito con un romanzo one shot, ma nel primo romanzo della serie Zanna c'è un importante collegamento con Un caso come gli altri. Il noir come genere potrà emanciparsi dalla serialità e arrivare a produrre romanzi totali, oppure è destinato a diluire i suoi universi nella serialità? È solo una questione di mercato o c'è un'esigenza oggettiva di genere?
R: Nel mio caso è una scelta precisa: tutti i personaggi dei miei romanzi vivono nello stesso universo. Ci sono collegamenti anche tra i romanzi e i racconti, ad esempio il cinico Stanis (vecchio amico di Zanna) era protagonista in un mio vecchio racconto per il Manifesto, “Giochi di prestigio”. Personaggi che si incontrano, o di cui si parla. È come una realtà parallela, un unico ecosistema “nero”, che i lettori hanno mostrato di apprezzare.
La giusta dimensione dei romanzi, in realtà, è quella del one shot, nel senso che ognuno di essi deve avere vita indipendente. Anche se poi si sviluppa in una serie, comunque, ogni romanzo deve essere un’opera finita e poter funzionare anche da sola. La serialità può esserci se aggiunge qualcosa a quella storia, se la rafforza, la arricchisce. Ma occorre sapere quando fermarsi.
D: In Un caso come gli altri vediamo la famosa linea della palma, come chiamava Sciascia l'infiltrazione mafiosa al Nord. A che punto siamo, secondo te, in quanto a consapevolezza del fenomeno mafioso nell'Italia del Nord? Parlo sia di cittadini che di istituzioni.
R: Secondo me questa consapevolezza ormai esiste. Certo, da sola non basta a sradicare il fenomeno mafioso. Dal punto di vista legislativo l’Italia è un Paese all’avanguardia nel contrasto alla mafia. Abbiamo leggi e misure di provata efficacia. Il problema è che le mafie, come molti altri fenomeni, si sono globalizzate e ormai dilagano in Europa, trovano terreno fertile in Paesi non attrezzati a contrastarle, come Germania o Danimarca, per non parlare di Malta.
Per quanto riguarda i luoghi in cui la criminalità organizzata nasce, alcune regioni del sud Italia, nello specifico, ci vorrà ancora tempo e un’opera forte di crescita culturale e civile. Le organizzazioni criminali si nutrono di ignoranza e povertà: hanno tanto denaro che potrebbero distribuire ricchezza e cultura nei territori che governano (perché li governano, nel vero senso della parola), ma non lo fanno. Una comunità afflitta dal bisogno e dall’ignoranza è più facile da gestire. Permette loro di esercitare un potere incontrastato. In questo senso e per loro stessa natura, i clan vampirizzano le zone in cui nascono, come anche quelle che poi ‘colonizzano’.
D: Nero di mare è noir del Mediterraneo, allo stato puro. Cosa ne pensi di questa etichetta?
R: Nel momento in cui è stato coniato aveva un senso. E un senso ce l’ha ancora, perché autori e temi trattati sono in qualche modo vicini, tanto quanto sono diversi da quelli che caratterizzano un certo ‘polar’ parigino, il giallo del nord Europa o l’hard boiled americano. La sospensione dell’incredulità, per esempio, nelle storie ambientate in Italia è molto più difficile. Gli eventi e le dinamiche sono vicini alla realtà, devono essere credibili. I personaggi non sono eroi, o super criminali, non si rendono protagonisti di imprese mirabolanti. Sono uomini e donne molto simili a noi.
Il lettore deve credere alle loro storie e questa è in fondo la sfida del noir Mediterraneo. Portarti a percepire la finzione quasi come se fosse realtà. Dandoti anche cazzotti nello stomaco, se necessario.
D: È interessante questo tuo pensiero, perché finora questa domanda l’ho fatta a molti e sei il primo a darmi un’interpretazione di questo genere. Personalmente ci vedo quello che Izzo chiamava fatalismo dei popoli mediterranei e che si rifrange nel noir. Del resto, in spagnolo, l’aggettivo fatal ha una connotazione negativa, come in italiano. Rimanendo su Izzo: in Franco Zanna, nella sua contemplazione del mare e nel suo romitaggio, vedo molto di Fabio Montale. Ci ho preso? Quali sono i modelli di questo personaggio?
R: Sicuramente Izzo ha influito tantissimo nel mio modo di scrivere noir. In Demian è evidente, al punto che nel primo albo uno dei personaggi è deliberatamente ispirato allo scrittore. D’altra parte, ognuno sviluppa il personaggio in base alle sue esperienze, vissute o letterarie, e al contesto in cui si trova a vivere. Il personaggio di Franco Zanna è nato attingendo ai miei ricordi di adolescente cresciuto nell’interno della Sardegna. Sulle montagne, lontano dal mare. Il fatalismo di cui parlavi in quel periodo l’ho percepito molto bene. È un tratto caratteristico di molti abitanti dell’isola. E averlo dentro non significa non voler combattere, anzi. I sardi sono sempre stati orgogliosi, combattivi. Ma per contrasto sentono che le cose non cambieranno mai, che a un certo punto occorra arrendersi al destino. Questo genere di fatalismo è stato a mio parere un limite allo sviluppo di determinate aree. Mentre curiosamente parecchi sardi che lasciavano l’isola poi si ritrovavano a fare grandi cose come imprenditori, intellettuali, politici, lontano dalla loro terra. Come se fossero sfuggiti a quel genere di ‘contagio’.
E proprio questo genere di fatalismo ritrova Zanna quando torna a vivere in Sardegna, profugo e distrutto, dopo aver fatto carriera e aver trovato l’amore dall’altra parte del mare. Raccontare il conflitto fra il suo orgoglio e il fatalismo, da narratore, era la cosa che più mi interessava. Zanna combatte, soffre, qualche volta vince, ma dentro di sé ha coscienza che le cose non cambieranno mai davvero. Non per uno come lui.
D: Zanna ha una zona oscura, un Nero che ogni tanto lo adombra, minaccia, rischia di far cadere. Il noir quindi non è solo uno strumento di critica sociale, di buio collettivo, ma anche di buio individuale? Ha una sua dimensione filosofica il noir come genere?
R: Il genere noir, per sua natura, gioca sull’approfondimento psicologico dei personaggi. L’autore può scavare nei loro pensieri e nelle loro vite e le azioni, di conseguenza, sono mosse da sentimenti profondi. Un buon protagonista ha una sua filosofia di vita, che può essere diversa da quella dell’autore (la visione di Zanna non è necessariamente la mia) ma assolutamente coerente. Torniamo al fatalismo di cui si è parlato prima, e che si ritrova anche in molti altri autori. Quella, certo, può essere una visione filosofica di fondo, tipica del Noir.
D: La storia di zio Gonario sembra uscita da due canzoni di De André: Zirichiltagghia e Disamistade. Diatribe di confini, faide, eredità. E in Zanna c'è qualcosa di animale qualcosa di primordiale. Cosa rimane di quella Sardegna viscerale?
R: Secondo me rimane di fondo qualcosa nella mia generazione, che in parte ha ancora quel modo di pensare. C’era una certa impronta, una forma mentis residuo del vecchio ‘codice barbaricino’. Nell’interno della Sardegna era un modo di vivere e di pensare che permetteva la sopravvivenza, regolava i rapporti con lo Stato, con gli amici amici e i nemici, e quelli tra i due sessi. Zanna ha quel tipo di mentalità. Non puoi perdere la faccia davanti a te stesso e agli altri. In una piccola comunità certe cose non vengono dimenticate né perdonate. Quel tipo di mentalità, unita a una certa anarchia e a uno spirito fondamentalmente ribelle, caratterizzava uomini come Zio Gonario. Certo, si trattava pur sempre di banditi, il cui lato romantico era più nella visione degli scrittori e dei giornalisti che se ne occupavano, che nel loro intimo. Ma certe storie, certe leggende, sono sopravvissute, e sono quelle che hanno dato origine anche alle canzoni di De André.
D: Qual è la differenza tra un criminale come lo zio Gonario e uno come Basile o Nicotra? E quanto personaggi come Max la Memoria o Rossini hanno influito nello zio di Zanna?
R: Tutte le letture e i personaggi più amati hanno un’influenza sulle opere di un autore. Il personaggio di Gastón Velasco, nella serie di Demian, doveva molto a Rossini, come anche a Janez di Salgari e allo stesso Kit Carson, il fido pard di Tex. Lo zio Gonario invece è un personaggio più vicino alla realtà: è squisitamente sardo, barbarico, più ispirato a vecchi protagonisti di storie banditesche regionali, trasmesse più per via orale che letteraria.
Intervista a cura di Alessio Piras
Social Network