Un romanzo russo
di Emmanuel Carrère
Adelphi, 2018
1^ edizione originale: 2007
Traduzione di Lorenza Di Lella e Maria Laura Vanorio
pp. 285
€ 19 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
«Ho voluto raccontare due anni della mia vita, Kotel'nič, mio nonno, la lingua russa e Sophie, nella speranza di riuscire a catturare qualcosa che mi sfugge e mi tormenta. Ma ancora oggi questo qualcosa mi sfugge e mi tormenta.» (p. 273)
Frastornata. Ecco come sono uscita da Un romanzo russo, appena arrivato in libreria in una nuova traduzione di Lorenza di Lella e Maria Laura Vanorio per Adelphi. Sapevo già che ogni romanzo di Carrère è in grado di spezzare le certezze e travolgere le pallide convinzioni con cui ci siamo avvicinati al testo, magari sbirciando il risvolto di copertina. Ma questa volta sono al tempo stesso confusa e affascinata: non fai in tempo ad acclimatarti a un tema e a ipotizzare come potrà poi svilupparsi, che ecco che ci si sposta di chilometri, di sentimenti, di sensazioni e si ricomincia daccapo. A unificare il tutto, un io narrante che coincide con l'autore, ben sapendo quali scollamenti o mistificazioni della realtà può operare uno scrittore avvezzo a giocare con l'io.
All'inizio della narrazione, troviamo l'io-Carrère alle prese con un nuovo progetto artistico, per quanto ancora sfocato: andare in un paesino sperduto della Russia, Kotel'nič, e raccogliere materiale per un reportage su una vittima della storia, Toma, arrivato lì per pura fatalità e «rimasto, come un bagaglio smarrito, e a poco a poco anche la sofferenza si è attenuata». Lui, ungherese, non ha mai imparato una parola di russo e nessun parente, amico o conoscente, d'altro canto, è venuto a reclamarlo: una grande enorme bolla di solitudine, senza via di uscita. Presto però gli incontri russi trasformeranno il viaggio: se all'inizio «Kotel'nič è il posto dove sta chi è scomparso» (p. 53), e poi diventa «un luogo dove lottare» (p. 81), infine si offre come ponte tra il presente e il passato del protagonista. Suo nonno era di origine russa e ha portato via con sé una vita complessa, su cui l'io narrante vorrebbe fare luce, anche se questo vuol dire mettere in crisi il rapporto già insolito e discontinuo con la madre.
Sulle parole di un'antica ninna-nanna, che torna come un canto rassicurante dai risvolti tuttavia sinistri, perché decurtata e impossibile da ricordare nella sua interezza, Carrère persevera, consapevole della funzione catartica e quasi psicanalitica del russo:
«Io che prego continuamente di essere liberato, mi dico che scrivere in russo è come comprare il biglietto per dare a Dio la possibilità di salvarmi» (p. 90)
Ma accanto al viaggio nel passato, c'è il presente di cui Carrère deve occuparsi: un presente in cui il suo amore per la bella, vivace e risplendente Sophie non sembra mai bastare. La ragazza è esattamente ciò che fisicamente e caratterialmente lui vorrebbe accanto: è appassionata, dolce, devota, innamorata. Ma è portata ad accontentarsi, e il gap culturale e professionale, nonché le diverse origini portano Carrère a interrogarsi più volte sul loro futuro. E qui l'ambivalenza è continua: gli strappi tra prendersi e lasciarsi sono violenti e, se il sesso è il linguaggio universale per gridarsi l'amore, i dialoghi sanno farsi spesso sadici. La frustrazione si trasforma in desiderio di fare male all'altro, o perlomeno di annientarlo emotivamente: «Non voglio che tu muoia, ma voglio uccidere l'amore che ho per te, mi fa soffrire troppo» (p. 230).
Ecco che allora i viaggi lontani, gli incontri, la preparazione del reportage per il cinema si trasformano in una immensa fuga e, al tempo stesso, in un gioco al massacro per la relazione tra il protagonista e Sophie. Al centro della delusione, un gioco letterario a cui la ragazza si è sottratta, suo malgrado: la presunta sorpresa consisteva nel farle prendere un determinato treno in una determinata giornata e di darle l'istruzione di leggere il racconto uscito su «Le Monde» a un preciso punto della tratta. Il racconto è un'accesa lettera al limite della pornografia, sensuale e sessuale al tempo stesso, in cui Sophie (mai nominata) è il "tu" femminile a cui è dedicata una masturbazione a parole lunga e sfacciata, con riferimento a un'atmosfera orgiastica di pensieri sessuali innescati sul treno proprio dalla simultanea lettura di «Le Monde». Ma la verità è un'altra e il desiderio di controllo - almeno su carta, se altrove è impossibile - viene ugualmente deluso. Ed ecco che allora una riflessione lucida e soverchiante per Carrère si infila verso la fine del libro: «Mi chiedo se per me scrivere non voglia dire necessariamente uccidere qualcuno» (p. 227).
Mai frase fu metaforicamente più vera. Ma dovete leggere il romanzo per comprendere in che senso: della tradizione letteraria russa, Carrère mantiene la complessità dei temi trattati, la preponderanza del racconto familiare, gli amori tutt'altro che lineari, lo scavo psicologico imperterrito e l'altezza dello stile. E sicuramente molto altro: ma starà a voi aggiungere nuovi tasselli, se non ne uscirete frastornati come me.
GMGhioni