Basaglia e le metamorfosi della psichiatria
di Piero Cipriano
Elèuthera, 2018 (prima ed.)
pp. 328
€ 18,00
Chi abbia letto Il manicomio chimico,
ad avviso di chi scrive il migliore della trilogia precedente, già conosce lo
slancio attraverso cui Cipriano è pronto alla difesa di Basaglia contro gli
ammiratori dell’antipsichiatra par excellence Thomas
Szasz.
Se la malattia non si dà che nel luogo
dell’incontro, annota Basaglia in un articolo dedicato all’analisi
fenomenologica dell’«incontro» (parte dei già citati Scritti), essa
è pure un incontro con la figura dello psichiatra e con quella della socialità
intera. Sostenere che la follia sia il grande affare dei sani, significa
calcolare quanti drammaturghi, scrittori, attori, registi, musicisti, artisti
visivi – con ottimi e pessimi risultati, in buona e cattiva fede – si occupino
di una sua rappresentazione. Tale la ragione per cui il capitolo conclusivo
dell’opera di Cipriano diviene un florilegio di voci anch’esse
riluttanti che spalancano, come fu per le porte del manicomio, l’argomento
della salute mentale. L’eredità di Basaglia si dimostra allora feconda, non
nella forma della semplice apologetica, bensì in una pratica insieme critica e
terapeutica. Come una rivoluzione.
La follia: il grande affare dei sani. Affare è terminologia piuttosto ambigua,
come prismatica è la pluralità d’eventi costretta nel nome di follia.
Affare, dunque. Dice anzitutto l’economia, il mercato, perché no, il commercio inteso
nel senso della scambievolezza heideggeriana cui non si lesina una regione
eminentemente etica. Ma pure, segnala la preoccupazione interpersonale,
una Cura molto più simile a quella che la filosofia morale contemporanea invoca
come take care, relazione maternamente simbiotica tra i
soggetti, che alla Cura metafisica di cui il solito Heidegger adorna il Dasein.
Proprio sull’ambiguità del termine, che pure risplende d’un nuovo incontro nel
gioco della relazione e dunque ancora dell’etica, si potrebbe leggere l’opera
che lo psichiatra riluttante Piero Cipriano dedica
a Basaglia e le metamorfosi della psichiatria (Elèuthera).
Allo stesso modo, si desiderasse indagare il codice con cui decifrare quanto di
terribilmente ineffabile si manifesta tra le pieghe della realtà, si potrebbe
leggere il travaglio critico e pratico insieme dello stesso
Franco Basaglia, animo errabondo che da Gorizia sino al Brasile trasporta sulla
schiena il firmamento del congedo dall’istituzione manicomiale. Dopo aver
presentato al pubblico una Trilogia della riluttanza (ancora
Elèuthera) per cui la polemica contro l’istituzione psichiatrica
era ora ironica ora mordace, Cipriano restituisce la figura del rivoluzionario
che insieme ai propri colleghi permise l’avvento della legge 180 -
o legge Basaglia, pur non essendo lui un politico, annota l’autore -, congedo
senza strette di mano dalla detenzione di cui il manicomio è intessuto sin
dalla propria origine. Non solo, Basaglia è pretesto di un saggio che nella
forma divulgativa consona all’autore, entro cui si mescolano narrazioni
personali, opinioni, giudizi radicali – come per il più volte evocato Emmanuel
Carrère -, indaga quel territorio solforoso che è il perimetro sempre più
singolarizzato della detenzione manicomiale.
Nelle presentazioni de La fabbrica della cura mentale [il suo testo precedente, ndr] – ogni tanto si fa vivo uno spettro […] colui che, non avendo letto il mio libro, è convinto che lo psichiatra riluttante sia un antipsichiatra […], cosicché appena nomino Basaglia, e lo spettro capisce che non solo lo stimo, Basaglia, ma che è persino il mio faro, il mio demone, il mio nume tutelare, ecco che inizia a interrompermi con frasi tipo: «ma Basaglia faceva gli elettrochoc!» […] o anche: «Szasz era coerente, altro che Basaglia!» […] Basaglia, pur non essendo un antipsichiatra, ha eliminato i manicomi (almeno quelli grandi) e ha eliminato l’equivalenza tra follia e pericolosità dalla legge sanitaria italiana (almeno sulla carta), mentre gli antipsichiatri (i Szasz, i Laing, i Cooper, eccetera) non hanno cambiato granché le cose nei loro paesi.
Il brano descrive con precisione il metodo per mezzo di cui
agiscono Cipriano-psichiatra e Cipriano-scrittore, indagine inesauribile che ha
per tema ciò giace sotto il
«gesto di sovrana ragione che chiude il prossimo in manicomio», riferisce
l'esordio di Storia
della follia nell’età classica che Foucault presenta, in quest’ordine,
al pubblico e alla propria commissione di Dottorato nel 1961. Mai detronizzato
il primato dell’intervento: è ciò che distingue i medici dai filosofi. Se sono
diventato medico, sembra sostenere Cipriano, se sono diventato psichiatra è
perché è in mio potere prendermi cura dell’alterità, saggiare
tecnologie di guarigione. Eppure se
il tentativo foucaultiano di indagare una storia dell’istituzione manicomiale
costringe l’accademico, forse con la medesima ironia che attraverserà Le parole e le cose,
a consacrare il proprio saggio a una storia della follia, lasciando
emergere il soggetto di detenzione
a discapito dell’istituzione detentiva, è in quanto quella follia, quel delirio, quella demenza,
serpeggia nitidamente, trasuda dalle
pareti dell’istituzione. Non che non vi sia follia, non che sovrana ragione non
dica che l’arbitrarietà di un potere che recide un soggetto dal proprio
ambiente - così ragionevole, così (neo)liberale - riponendolo nell’eterotopia,
nel contenzioso, nell’inedia farmacologica – tanto per mescolare categorie di
Foucault e di Cipriano – eppure osserva l’emergere di soggetti la cui detenzione
è essa stessa la cura. Non si può guarire il folle? Bene, lo si recluda!
Tale, il più rivoluzionario proposito di Basaglia: non più
persuadere il medico che abbia le mani legate –
come legate erano e ancora sono le braccia, le gambe di molti tra gli ospiti
degli SPDC, Servizi Psichiatrichi di Diagnosi e Cura – contro la nebbia del
delirio, ma che parte della ragione possa essere permessa attraverso un attento
lavorìo di imitazione della realtà. Epochè, dunque,
la sospensione del giudizio di cui il fenomenologo Edmund Husserl si serve
nell’osservazione della realtà posando lo sguardo sino alle cose ultime del
mondo, il nucleo più cocente degli enti. È l’emergere dell’assemblea tra
degenti e infermieri dell’istituto goriziano le cui voci ricolmano l’Introduzione
documentaria a cura di Nico Vascon nel volume L’Istituzione negata.
Rapporto da un ospedale psichiatrico (Il Saggiatore) della cui
curatela si occupò lo stesso Basaglia.
«Psichiatria», scrive Cipriano, «è fatta da psiché e iatreia, l’arte
– arte, non scienza – di curare l’anima». Curare, dunque, «Ma come? Nel
senso di cure o
di care? Nel
senso di cure-curare no,
abbiamo detto, perché si tratterebbe di affidarsi alla separazione della
tecnica. Allora nel senso di care-prendersi cura?».
Sebbene la risposta sia «più complessa» e si preferisca non sottrarla
all’interesse del lettore, si potrebbe azzardare che il prendersi cura assume
la forma di una mimesis. Lì
fuori si consuma la vita, una vita più o meno democratica,
più o meno giusta, più o meno felice, qui dentro,
nell’istituto detentivo, la quiete mortifera di chi è messo tra
parentesi, espressione saccheggiata a Foucault, il quale nel corso al
Collège de France del 1974-1975 dedicato a Gli anormali argomenta
che tra i propositi della psichiatria vi fu quello di mettere tra
parentesi il sovrano nella persona del monomaniaco Giorgio III. Bene,
sembra sostenere Basaglia rimboccandosi le maniche, permettiamo
un’imitazione, non certo parodica bensì terapeutica, della realtà esterna.
Se la relazione tra personale ospedaliero e degenti era prima costretta alla
massa globulare del guardante e
del guardato, diviene
dunque individuale. La
riappropriazione della discussione è non tanto un tentativo d’imitare una certa vita activa ma
di permettere al folle, al
paziente, figura inconsistente il cui volto è stato corroso dal morbo il quale
ha pure annebbiato lo sguardo di medici e di infermieri tali che non sappiano
distinguerne uno dall’altro, la riappropriazione di una identità
individuale. Io sono io e non un
altro. Non può allora che contribuirvi lo spettro del lavoro.
Il punto di attrito fra manicomio ed organizzazione produttiva si situa dunque nei meccanismi a garanzia di reciproca impenetrabilità, cioè nell’automatismo della sanzione e nell’irreversibilità dell’internamento. […] Condizione necessaria per una rifondazione della psichiatria, è dunque che questa frattura, questo scarto siano colmati con l’instaurarsi di una continuità, ideologica e organizzativa, tra riparazione del corpo sociale (come controllo del suo equilibrio produttivo) e riparazione del singolo corpo (come tutela della sua potenzialità di lavoro),
annota Basaglia in uno scritto del 1979 dedicato a Legge e psichiatria.
Per un’analisi delle normative in campo psichiatrico e incluso nella
raccolta Scritti.
1953-1980 (Il Saggiatore). Restituire la soggettività percorrendo
la normalità.
Una follia duplice la cui immanenza si riflette alle pareti
dell’istituto detentivo; bisogna che il degente si emancipi,
riagguanti una forma di a-normalità individuale che nessuno possa
diagnosticargli. Come pure scrive Foucault guerreggiando contro le obiezioni
che Jacques Derrida muove contro Storia della follia
nell’età classica, l’annichilimento del folle da parte dell’età moderna, il
cui incarnato appartiene alla prima delle Meditazioni
Metafisiche di René Descartes, impiega ora un termine saccheggiato al
glossario medico, insani,
qualificando i
dissennati nella vacuità del proprio pensiero, ora un dittico di termini
giuridici, demens e amens, ai quali
attori è negata la totalità dei diritti. Il folle è prima uno squilibrato, nel
senso più aderente al termine alla cattiva proporzione degli umori che secondo
la medicina ippocratica permettono ragionevolezza e dunque buona salute
soltanto se in perfetto equilibrio, infine, dove non ancora un criminale,
almeno un soggetto di cui la giurisdizione dovrebbe preoccuparsi. Lo
insegna, in fondo, John Locke nel Secondo trattato sul
governo, fondamento della teoria liberale: dagli uomini degenerati bisogna
guardarsi, perimetrare un governo perché la maggior parte dei cittadini,
consociati in una comunità, possa riscaldarsi al focolare del potere
legislativo. Bisogna dunque sorvegliare e
punire, per utilizzare il titolo dell’indagine che Foucault dedica nel
1975 all’istituzione carceraria.
Insomma, per desiderare una rivoluzione sociale serve
che il degente ri-conosca la società, sia mescolato con essa, sino al suo
potenziale rifiuto. I soggetti resi docili dai contenziosi e dal trattamento
farmacologico non sono che creature alienate –
termine la cui connotazione è piuttosto aspra, in psichiatria –
dall’agglomerato sociale. Restituendo la biografia basagliana, Cipriano
tradisce l’intento dell’opera: non una monografia scientifica, quale quella che
John Foot ha riservato allo psichiatra veneziano e all’avventura goriziana (La “Repubblica dei
Matti”. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978. Feltrinelli),
bensì una riattivazione del metodo e una ridiscussione dello
sguardo nell’epoca del manicomio chimico e digitale. Metodo critico, dunque,
sosterrebbe il buon Kant, quello di un giudizio cui non è lesinata una regione
di sospetto – il quale diverrà con Nietzsche così immanente al giudizio da
confondersi con esso – eppure del tutto pratico.
L’interrogativo è non privo d’interesse: cosa è
accaduto all’istituzione manicomiale dopo la rivoluzione basagliana? Se
il volume collettaneo dedicato a La psichiatria dopo Foucault (Feltrinelli) si
dedicava in verità più all’esegesi foucaultiana che alla critica psichiatrica,
l’opera di Cipriano restituisce con precisione la singolare pluralità attraverso
cui il manicomio molecolare si impossessa degli individui
realizzando di fatto una Società dei devianti. Non solo in forma di
farmacologia che operi sull’aggressività del paziente – e che Basaglia, come
pure Cipriano, non rifiutava con il disgusto di chi desidera affrancarsi da
ogni responsabilità - ma pure di un bieco mercato che osservi in
ogni individuo un potenziale cliente. Il controllo diviene molecolare,
insieme chimico e singolarizzato. È la psicopolitica evocata
dal filosofo Byung-Chul Han, una politica che il soggetto – soggetto a
cosa, a chi? Nient’altro ormai che a e di sé
stesso – incorpora nelle proprie tonalità emotive.
Antonio Iannone