di Guillermo Arriaga
Bompiani, 2018
Traduzione di Bruno Arpaia
pp. 752
€ 22 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
Vivo in un mondo di fantasmi, Chelo. Per favore non portarne di nuovi. Non ce la faccio più. (p. 120)
A Juan Guillermo non piacciono i Beatles, anche se tutti li ascoltano in Messico alla fine degli anni Sessanta: e come potrebbe amarli, lui che è nato all'insegna della morte e del sangue, e che con la morte e il sangue avrà drammaticamente a che fare fin dalla sua primissima adolescenza? Juan Guillermo ha convissuto nell'utero materno con il gemello morto per alcuni giorni, rischiando la sua stessa vita, e questo non è stato che l'inizio. L'infanzia, certo, quella è passata al meglio, con suo fratello maggiore Carlos e un pugno di amici fidati a saltare da un tetto all'altro. Il rischio sotto i loro piedi; ma anche la libertà a portata di un salto ben calibrato. Almeno fino a che Carlos viene assassinato da un gruppo di fanatici religiosi: la morte (particolarmente straziante) del fratello non è che il primo tassello di un domino macabro, che porterà in breve tempo alla morte dei genitori, della nonna e degli animali di casa. Juan Guillermo, completamente solo con il senso di colpa per aver in qualche modo tradito Carlos con la sua ingenuità, si trova nella casa di famiglia silenziosa e triste. Lui, adolescente, deve fare i conti con i propri fantasmi, o meglio con ricordi che al tempo stesso portano Juan Guillermo a idolatrare Carlos, tuttavia non certo immacolato, ma implicato in traffici di droga e in un allevamento abusivo di cincillà sui tetti.
«Chiunque abbia visto morire un essere vivente sa che la morte non arriva in maniera definitiva e totale. La morte è un'ondata di piccole morti. Non siamo individui, ma la somma di cellule che si raggruppano per dar forma a ciò che crediamo sia un individuo. La morte non è altro che la morte di un insieme di molteplici esseri viventi. I tessuti non finiscono di colpo, ma vanno spegnendosi uno dopo l'altro» (p. 91).
In confronto con le inevitabili riflessioni sulla morte e la cascata di ricordi che ricostruiscono capricciosamente le indagini e la caccia fino alla morte di Carlos, il presente è scarno, almeno finché nella vita di Juan Guillermo non si affacciano due nuove speranze. Da un lato, la conturbante Chelo, anche lei segnata dalla morte, che ha sfiorato quando, da ragazzina, è caduta da un tetto mentre fuggiva da un precoce incontro amoroso; eppure le tante cicatrici sulle sue gambe non fanno che aggiungere esperienza alla sua bellezza. «Chelo era il mio paese, l'unica terra alla quale potevo aggrapparmi» (p. 138): ma è possibile fermare uno spirito libero come Chelo, tanto fisica e concreta da legare al corpo le sue emozioni più forti? E Juan Guillermo sa amarla così, nonostante la gelosia sempre più accesa?
«Io restavo nudo nella mia casa solitaria, nella casa dei miei morti, con il lutto saldato alla tortura della mia gelosia». (p. 77)
E poi c'è Colmillo, un lupo purosangue che i vicini hanno tenuto per anni alla catena, finché l'animale non ha sviluppato un'aggressività ingestibile. Alla notizia che presto un veterinario avrebbe ucciso il lupo, Juan Guillermo sviluppa la sua personale crociata: salvare Colmillo e occuparsi di lui, a qualunque costo. Ma niente è facile come sembra: nonostante la museruola, Colmillo distrugge e insozza il pianoterra di casa, terrorizzando il cane King e costringendo il ragazzo a vivere al piano di sopra, asserragliato a lungo. Almeno fino all'arrivo di uno stravagante domatore del circo, Sergio Avilés, che decide di prendersi cura di Juan Guillermo, perché tra orfani ci si intende, e di aiutare il ragazzo ad addomesticare il lupo. Per quanto possa sembrare assurda l'ostinazione di Juan Guillermo, presto lo spirito selvaggio di Colmillo troverà rispondenze con il desiderio di vendetta del suo nuovo padrone. Juan Guillermo, infatti, non ha smesso di pensare alla vendetta con cui punire gli assassini di suo fratello e, indirettamente, di tutta la sua famiglia. Ma la vendetta è meno dolce e meno facile del previsto...
In parallelo a questa vicenda principale, densa come sangue raggrumato in cui si distinguono pericolosi e violenti trombi, scorre un'altra vicenda, che ricostruisce le origini di Colmillo a partire da suo padre, il selvaggio, coraggioso, enorme lupo Nujuaqtutuq, catturato anni prima da una tagliola inuit e tenuto a lungo intrappolato dal cacciatore Amaruq. E tuttavia, lì in mezzo ai ghiacci del Canada, qualcosa che va al di là della caccia spinge Amaruq a prendersi irrazionalmente cura del grande animale ferito, sfamandolo e portandolo con sé su una slitta attraverso paesaggi ormai anonimi per via della neve. A unirli, una comune lotta: quella per la sopravvivenza. Ma la vicenda non si fermerà qui: da quando Colmillo entra in scena nella vita di Juan Guillermo, i capitoli vengono divisi tra questa vicenda e la storia di Nujuaqtutuq e Amaruq. E non sono poche le rispondenze tra l'una e l'altra storia.
Infatti, anche se in modo diverso, siamo davanti a due storie di lotta alla sopravvivenza: in senso letterale per il lupo selvaggio e l'inuit, in senso figurato (e non solo!) per il ragazzino messicano e il suo nuovo lupo. Ecco che alcune domande si avvicenderanno: è giusto limitare la libertà di chi è per sua natura libero e fiero? Provare ad addomesticarlo e a mutare il suo carattere per piegarlo forse è possibile, ma è legittimo? E, si badi, non ci si riferisce solo ai lupi...
Tutto, in questo grande e avvincente romanzo, è all'insegna dei colori violenti che animano la copertina: il rosso e il nero. Passione, morte, coraggio, angoscia, disperazione, rimorso, senso di colpa, desiderio di vendetta scuotono continuamente la narrazione in uno stile che sa procedere per lunghe e serrate narrazioni, intervallate da dialoghi molto credibili, tra strappi temporali, pagine di riflessione e di sperimentazione. Talvolta le ossessioni di Juan Guillermo si trasformano a fine capitolo in un paio di pagine dal periodare ripetitivo, in cui climax, enumerazioni e tante altre figure retoriche danno voce al turbamento interiore. Così nei punti salienti della narrazione fanno capolino tessere di leggende, tradizioni di altri paesi, suggestive etimologie degli avvenimenti e altri inserti. La lingua è plastica, ma non selvaggia, al contrario della sinossi: così Arriaga si fa architetto di un ordinato palazzo narrativo dalla plurima esposizione: se per tre lati Il selvaggio è adombrato dalle ombre del passato, su un lato splende un sole accecante, e noi restiamo lì per oltre settecento pagine ad aspettare fiduciosi che Juan Guillermo e gli altri personaggi trovino il coraggio di voltarsi verso la luce.
GMGhioni