La notte
di Elie Wiesel
La Giuntina, 1980
pp. 112
€ 10,00 cartaceo
€ 6.99 ebook
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Titolo originale: La nuit (1958)
Prefazione di François Mauriac
Traduzione di Daniel Vogelmann
La notte di Elie Wiesel è un romanzo pieno di profeti: Moshé lo Shammàsh, l'inserviente, scampato alla morte per trasmettere il suo messaggio, privato della gioia e del canto, che preannuncia la tragedia a venire, inascoltato come Cassandra, come lei considerato matto. E la vedova Schächter, che pazza lo è diventata sul serio e vede anzitempo i fuochi divampare nella notte buia. Gli altri, gli ebrei di Sighet, invece, ciechi e sordi a ogni segnale, permangono ostinati e ottusi nella loro condizione di ignoranza, nutriti di illusioni autocostruite e continuamente alimentate, rifiutandosi di guardare in faccia la realtà. Stipati prima nei ghetti e poi nei carri bestiame, continuano a sperare, tanto che persino l'arrivo ad Auschwitz per un attimo sembra loro un miraggio di soluzione:
Ancora qualche giorno e ci saremmo messi a urlare anche noi.
Ma si arrivò in una stazione. Chi si trovava vicino alle finestre ce ne disse il nome:
-Auschwitz.
Nessuno l'aveva mai sentito dire. [...] Due uomini potevano scendere per cercare dell'acqua. Quando tornarono, raccontarono che avevano potuto sapere [...] che era la stazione d'arrivo. Ci avrebbero fatti scendere. Lì c'era un campo di lavoro. Buone condizioni. Le famiglie non sarebbero state divise. Soltanto i giovani sarebbero andati a lavorare nelle fabbriche. I vecchi e i malati sarebbero stati impiegati nei campi. Il barometro della fiducia fece un balzo. Era l'improvvisa liberazione da tutti i terrori delle notti precedenti. Si rese grazie a Dio.
La speranza si spegne quando il fuoco si vede davvero, accompagnato dall'odore della carne bruciata. "Doveva essere mezzanotte. Eravamo arrivati. A Birkenau". Il narratore, all'inizio del volume, si definisce con due unici tratti: la sua giovinezza e la sua fede ("Avevo dodici anni ed ero profondamente credente"). Quello che il curatore del volume, François Mauriac, incontrerà anni dopo è un uomo completamente diverso:
Capii allora che cosa avevo amato fin dall'inizio nel giovane israeliano: quello sguardo da Lazzaro resuscitato, e tuttavia sempre prigioniero delle oscure rive dove vagò, incespicando su dei cadaveri disonorati. Per lui il grido di Nietzsche esprimeva una realtà quasi fisica: Dio è morto; il Dio di amore, di dolcezza e di consolazione, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe si è dileguato per sempre, sotto lo sguardo di questo ragazzo, nel fumo dell'Olocausto umano preteso dalla Razza, la più ingorda di tutti gli idoli.
Quella che viene raccontata nelle pagine di questo memoriale è la più orribile di tutte le barbarie: l'uccisione di Dio nel cuore di un ragazzino profondamente credente. Con Dio, muoiono i sogni, la pace interiore, l'amore per la vita. Elie Wiesel, che avrebbe vinto il premio Nobel per la pace nel 1986, descrive con parole piane, e per questo tanto più taglienti, questo assassinio dell'innocenza, perpetrato giorno dopo giorno, o meglio nella lunga, eterna notte che è stata per lui l'esperienza del campo di concentramento. In un'occasione tragica e consueta della vita del lager, di fronte all'impiccagione di un bambino, piccolo "angelo dagli occhi tristi", qualcuno chiede dove sia Dio. E l'unica risposta che il giovane Eliezer può dare – ed è una risposta necessariamente definitiva – pone una pietra tombale su qualunque residuo di fede.
Dietro di me udii il solito uomo domandare:
- Dov'è dunque Dio?
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
- Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca...
Di fronte agli eventi che si consumano davanti ai suoi occhi sempre più vuoti e spenti ("I sensi erano offuscati, tutto sfumava in una specie di nebbia. Non ci si attaccava più a nulla. L'istinto di conservazione, di autodifesa, di amor proprio: tutto avevamo perduto"), al giovane che cresce in una realtà disumana e disumanizzante, l'uomo sembra improvvisamente "più forte, più grande di Dio": privato di ogni bene, strappato dai suoi affetti, torturato, malmenato, quotidianamente umiliato e ridotto al rango di bestia da soma, l'essere umano trova comunque la forza di rialzarsi e di levare le sue Lodi a un Dio indifferente. Questa è la vera forza, che scaturisce dalla miseria.
Nella maggior parte dei casi, del resto, l’esistenza nel lager è un’esistenza egoista, dominata dall'indifferenza verso gli altri e da una concentrazione esclusiva sulla propria sopravvivenza. Anche i naturali sentimenti di empatia verso il prossimo vengono travolti dalla resistenza inesausta che spinge l'individuo a strappare un giorno ulteriore alla propria morte, talvolta disperatamente agognata come fine ultima del dolore, eppure sempre respinta un po' più in là, sempre in fondo temuta.
Sono le notti a scandire il ritmo della narrazione: quella in cui è stata annunciata la deportazione, la prima di tutto; quella del viaggio, estenuante e terribile; quella della fuga da Buna, in cui gli ebrei disperati bruciano la loro disperazione in una corsa interminabile che li fa diventare puri corpi, "più forti del freddo e della fame, degli spari e del desiderio di morire, condannati ed erranti, semplici numeri, [...] gli ultimi uomini sulla terra". L'allontanamento dal campo, in mezzo alla neve, spronati dai fucili delle SS, è violento quanto la permanenza al suo interno. La domanda scaturisce allora dal fondo dell'anima del prigioniero: "Per quanto tempo ancora la nostra vita si sarebbe trascinata da un'ultima notte all'altra?".
Che cosa sopravvive a un'esperienza simile?, si chiede il lettore mentre scorrono le pagine. La memoria, probabilmente, debito necessario da pagare ai caduti. Al rabbino Eliahu. A Meir Katz, che solo nel momento della resa riesce a piangere suo figlio. A quel Juliek che trova in sé l'energia per suonare Beethoven ai moribondi e così congedarsi dal mondo:
L'oscurità era totale. Sentivo soltanto quel violino ed era come se l'anima di Juliek gli servisse da archetto. Suonava la sua vita. Tutta la sua vita scivolava sulle corde. Le sue speranze perdute, il suo passato bruciato, il suo avvenire spento. Suonava quello che non avrebbe mai più suonato.
L'ultima notte è quella che porta i prigionieri a Buchenwald. L'ultima tappa di un viaggio infernale, dove l'uomo è messo di fronte alla vergogna per se stesso, nel momento in cui troppe volte si scopre disposto a rinnegare il padre in nome di un tozzo di pane. La lotta per la sopravvivenza non conosce etica o giudizio, anche se il protagonista non smette di colpevolizzarsi, e indugia nella narrazione sullo strazio di un lento addio, giunto in extremis, quando ormai si intravede una possibilità di salvezza. Era il 28 gennaio 1945: “dovevo ancora restare a Buchenwald fino all'11 aprile. Non parlerò della mia vita durante quel tempo: non aveva più importanza. Dopo la morte di mio padre nulla mi toccava più".
Anche la liberazione, tardivamente sopraggiunta, non lascia dietro di sé che vuoto e insensatezza. L'uomo che si guarda allo specchio non si riconosce più: è un cadavere quello che lo guarda dal fondo opaco (del riflesso, di se stesso). Non c'è morale per Elie Wiesel al di là di questa, durissima e inaccettabile. Non c'è assoluzione.
La sintesi estrema di quel che doveva venire poteva però essere già scavata fuori dalla prima di tutte le notti, o meglio dalla prima fase di una notte dello spirito destinata a non finire. Meno note di quelle con cui Primo Levi apre Se questo è un uomo, le parole di Wiesel rimandano alla stessa privazione di umanità, allo stesso dovere del ricordo, e come tali devono risuonare con la stessa urgenza:
Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.
Mai dimenticherò quel fumo.
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.
Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia Fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l'eternità il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.
Carolina Pernigo