Lettere d’una viaggiatrice
di Matilde Serao
Elliot Edizioni, 2017
pp. 192
€ 17
Matilde Serao, lucida nelle sue denunce e nelle sue cronache, fondatrice del quotidiano “Il Mattino” con il marito Edoardo Scarfoglio fu, oltre che donna colta e intelligente, anche una raffinata viaggiatrice. Nel 1908, quando già la sua fama di scrittrice era conclamata, venne pubblicato Lettere d’una viaggiatrice, che la casa editrice Elliott ha di recente riproposto nella Collana Antidoti.
Lo sguardo della Serao si muove attraverso città d’arte, mete europee, capitali del bel mondo, con consigli filosofici sul viaggio come metafora della vita, in un’Europa che è alle soglie della Prima Guerra Mondiale, e nello stesso tempo ci fornisce uno sguardo modernissimo sui luoghi, le vite, le mode, i vizi e la cultura dell’epoca.
“Non cerchi, l’amico lettore, in queste lettere di una viaggiatrice, né l’itinerario preciso, né l’ordine cronologico”
Le sue sono preziose indicazioni per avvicinarsi al libro come a un viaggio, che è dettato dal sentire, dal momento, dalla stagione e dalle emozioni che le città visitate regalano a chi scrive e a chi legge.
C’è Roma, tristemente presa d’assalto nei mesi più freddi e goduta invece nelle calure estive e solitarie, quando la dimensione di grande città sembra non appartenerle, quando tutti se ne allontanano senza riguardo. C’è Firenze, città che incarna l’anima antica, e per questa ragione, visitarla senza aver compreso nulla di questa storia sarebbe del resto deludente. C’è Verona, patria di un amore vero o immaginario di shakespeariana memoria.
Ma tra le parole che la scrittrice ci regala, col suo sguardo acuto, ci sono quelle che riguardano anche più da vicino le motivazioni che ci inducono a intraprendere un viaggio, il valore dell’assenza e della scoperta, il sentimento di schiavitù a cui la vita di ogni giorno sembra costringerci, così come facciamo da soli con le relazioni a cui ci sottoponiamo, volontariamente, sottraendoci al piacere primario della libertà che va indagato, attraverso questa misteriosa forza che ci rende liberi e sconosciuti agli altri e a noi stessi. Viaggiare per dimenticarci chi siamo e ricordarci per cosa viviamo, per l’eterna esigenza di muoverci, di esistere.
“Per conoscere profondamente, intensamente le persone, i paesi, le cose, bisogna, amica carissima, avere il bizzarro gusto e il singolare coraggio di vedere uomini, città e cose, di viverci in mezzo, quando il loro miglior tempo è passato”
Così è anche per le città, come Roma, così gremita nei grand hotel in pieno inverno, così sconosciuta ai più nel tempo colmo dell’estate, a tal punto da essere rinominata la Città Morta, proprio in quei mesi in cui a giugno, all’epoca, chiudevano caffè e ristoranti. Strana usanza, e in questo la testimonianza della Serao ci restituisce una pagina di costume ben diversa da quella di oggi, soprattutto se paragonata al business turistico odierno, senza ritmi, senza stagioni, senza tregue, se non per i giorni ben più afosi di agosto, in cui in parte si svuotano le grandi città.
Il viaggo visto anche come occasione per raccontare il lavoro dello scrittore, il furore della creazione che stanca e assoggetta, la volontà di restare straniera tra gli stranieri, come solo in viaggio può succedere, magari nell’affollata piazza San Marco di Venezia, città che diventa l’emblema dell’amore e della poesia, nel racconto dell’amore tra George Sand e Alfred de Musset. Il viaggio, per la Serao, lo intuiamo addentrandoci in questo lungo racconto, a metà tra l’epistolario,il diario e il carnet de voyage, si svela per quello che è e per quello che cela. Diventa d’improvviso un pretesto per raccontarci, con sguardo acuto, il mondo dell’epoca.
I personaggi diventano parte di questo lungo e personale itinerario attraverso le sue emozioni, dal ritratto della bella e divina Duse alla descrizione di Francesco Paolo Tosti, autore di romanze molto amato in Italia e in Inghilterra, e per il quale, l’essersi allontanato dall’Italia non ha mutato il suo spirito ma ha placato e instradato la passione (ancora considerazioni sulla natura dell’ispirazione e dell’arte, dunque).
Ogni incontro nasconde una magia, un’atmosfera, un incanto legato a una stagione e a un luogo, rendendo lo sguardo della Serao quello di un’autentica viaggiatrice, intenta ad assaporare i luoghi e non a vederli, capace di trasmettere attraverso un episodio i colori intatti di uno scenario e di un’epoca intera, che si dispiega ai nostri occhi. Così scopriamo che da Genova alla Costa Azzuraa esisteva, ed esiste ancora, un turismo d’elite ad animare le serate e le stagioni a tal punto da diventare “metaluogo”, una Cosmopoli che la Serao ci fa rivivere tra battaglie di fiori, passeggiate e serate mondane, tra dame in abito bianco e luoghi di villeggiatura ancora adesso ricchi di un fascino snob e altezzoso.
Non mancano i costumi di un’epoca, la moda del moderno, lo stupore di fornte alla prima Biennale, l’interrogarsi sull’arte, il gioco nei casinò di Montecarlo, l’idea di un nascente modo di viaggiare. A proposito del Casinò di Montecarlo e dei viaggi in treno compiuti per visitarlo, una nota di costume ci sorprende.
“Il settanta per cento delle persone che riempiono il palazzo del giuoco è fatto di donne. Sul piazzale fiorito, innanzi al Casino, e nel peristilio, tutto marmi e grigi rossi, al guardaroba, e nella sala di toilette per le signore, che è un salotto squisito, profumato all’iride bianco, nal vasto hall, cioè quella sala dei passi perduti dove si digerisce la perdita o la vincita, e alla buvette, dove le fauci inaridite dalla febbre del giuoco si dissetano, nei saloni del giuoco, intorno alle tavole, sui divani, innanzi all’ufficio del cambio, in ogni cantuccio, le donne vanno, vengono, stanno, per lunghe ore, per giornate intere, in gruppi, in coppie, solitarie, raramente in compagnia di uomini, salvo quando sono accompagnate da un marito, da un fratello, da un flirteur”.
Donna arguta ed emancipata, la visione che la Serao ci restituisce delle donne di inizio Novecento è una visione anch’essa modernissima. Le donne viaggiano da sole, bastano a se stesse, si concedono tradimenti, moderne eroine di una distratta mondanità, sempre in movimento, affollano le sale da gioco e i casinò. Sono figure che colorano questa stanca e vecchia Europa, che anticipano il fermento della storia, lo popolano di immagini così diverse e variopinte:
“[...] e tutte quante, infine, povere e ricche, vecchie e giovani, donne bionde e donne brune, donne tinte color dell’uovo e donne tinte color del rame, prese da questa segreta e anche palese passione del giuoco, prese per un minuto, per un’ora, per un giorno, per un anno, per una vita, ma prese, tutte, prese!”
Non manca nei confronti di quel bel mondo una curiosità e parimenti un’ironica e sagace volontà dissacrante, per tutto ciò che nasconde tra snobismo e mode di ieri e oggi, sottolineati dai termini inglesi e francesi con cui vengono descritti i rituali di questi finti villeggianti, che pur appartenendo a varie famiglie di alto lignaggio si mescolano agli abitanti di una città non certo modesta quale è Cannes.
“[…] e, tutti quanti, si riuniscono a Cannes, che è il loro paese d’inverno e di primavera, ormai, e si visitano fra loro, e se pure vanno in automobile, giuocano al tennis, giuocano al golf, mangiano i sandwiches del nostro amico Rumpelmayer, e si vestono, le donne, da Doucet o da Redfern, che hanno succursali a Cannes, si vestono, gli uomini, da Poole, che ha bottega anche a Cannes, oltre che a Londra e Parigi: pure conservano il loro carattere regale, i loro circoli particolari, i loro maori, le loro amicizie, le loro simpatie e le loro antipatie, come nei paesi donde vennero. Sono una casta, come dapperttutto, anche a Cannes.”
Sono viaggi lenti questi della Serao, viaggi da treno, che la portano in giro per i posti a lei cari, che le impongono una riflessione e una conoscenza di quei luoghi già dal panorama al finestrino, o gliela negano, come avviene per Parigi, di cui l’arrivo nelle mattine prive di vita, regala un’immagine sospesa nella nebbia.
Non è la Parigi delle luci, non è la Parigi frivola ed elegante a interessante la penna e le peregrinazioni della scrittrice, sono i veri volti di Parigi, operai, sarte, garzoni e i boulevards minori, quelli pieni di vita, che fanno da corridoio secondario alle vie più famose, dove si affollano donne che si vestono di lusso e di piacere, e che regalano di riflesso lo stesso barlume di speranza anche a chi confenziona loro i vestiti. E in un parallelismo davvero arguto, ecco che arriva la descrizione della Morgue, lo stabilimento in cui si esponevano i cadaveri per l’identificazione. Mercificazione dello spirito e del corpo, l’esposizione dei vizi e dell’estrema povertà, uno dopo l’altro, uniti a mostrarci le due facce di una città sola. La descrizione di coloro che vanno a sfilare davanti a quei cadaveri con orrido gusto ricorda molta mancata dignità odierna nel ritrarsi in luoghi colpiti da tragedie, incuranti di chi ha perso tutto e di chi non ha mai avuto nulla, se non oggetti, e non conosce rispetto.
Tanti i consigli sui ristoranti, i luoghi da non perdere, gli eventi da vedere, sfidando un certo pregiudizio sullo snobismo parigino, persino il Grand Prix, tutto rientra nelle accurate descrizioni di viaggio, tutto induce a sua volta a conoscere e a muoversi.
Quando inizia il caldo, la viaggiatrice predilige la montagna e inizia la scoperta di sentieri, vallate, o la scalata al Cervino, infine riposandosi al sole di Courmayeur e salutando Aosta con nostalgia.
Dalla prima all'ultima pagina viene voglia di affidarsi alle parole di Matilde Serao, godersi la meta, qualunque essa sia. Si intuisce la profonda modernità del messaggio di questi scritti, ovvero che alla base di qualunque conoscenza c’è il movimento, fatto di uomini e di luoghi, di sapori e di odori, e alla base di ogni buon libro di viaggio c’è, come in questo caso, la capacità di saperlo raccontare.
Samantha Viva