di Robert McLiam Wilson
Fazi, 2018
Traduzione di Enrico Palandri
pp. 384
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
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Sono molto più che un semplice barbone: sono un claustrofobico, un eremita, un profeta, un perdente, un nonnulla. Cristo, sono un simbolo dell’epoca. Gran cosa, mi sta bene.Un tempo ho anche avuto dei successi. Ero saggio, danaroso e ricercato. Ora sono nulla. Nessuno mi conosce ed esisto appena. Così muore la carne, ossia mi dissolvo anch’io nella realtà. L’uomo dell’altro ieri. (Pag. 19)
Ci sono così tante cose in questo romanzo d’esordio di McLiam Wilson, autore dell’acclamato Eureka Street, che è davvero difficile decidere da quale punto partire, quale chiave di lettura scegliere, analizzare, raccontare. C’è, fortissimo, il dato autobiografico, su cui chi mi legge e conosce ormai sa che cerco sempre di non soffermarmi più del dovuto nella lettura di un testo, ma che in questo caso è impossibile evitare del tutto. C’è la prosa lirica, struggente, diretta e intensa di un autore che ho amato tantissimo con il romanzo precedentemente pubblicato sempre da Fazi e il rimando non celato a Joyce e Dickens, solo per citare le influenze più evidenti. C’è lo stupore di fronte ad un esordio in cui sono riconoscibili sensibilità e talento non comuni. C’è l’inganno, il gioco con il lettore, il legame di empatia che si crea tra noi e il protagonista di questa storia, Ripley Bogle, antieroe tragico, sbruffone, ironico, bugiardo, incantatore, sconfitto. C’è la gioventù, dolorosa, sconfitta. E poi c’è lei, l’Irlanda, che come un fantasma attraversa tutto il romanzo e ne è l’essenza, identità ingombrante, patria da cui fuggire.
Questo romanzo è Bogle, che a ventidue anni ha già vissuto una vita intera e di certo non delle più facili, tra successi – attimi fugaci di serenità – e fallimenti – la maggior parte – in una caduta sempre più rovinosa. Quattro giorni, da giovedì a domenica, per seguire Bogle tra le strade di Londra, mentre il ricordo si intreccia ad un presente di solitudine e vagabondaggio. Un presente doloroso, di fame, freddo e una solitudine straziante che, in un certo senso, fa ancora più male della mancanza di cibo e riparo:
Le ore del giorno sono relativamente semplici per un barbone. Porgono il conforto del sonno, del sostegno e della socievolezza. La notte offre solo sofferenza. È un rovesciamento edificante della pratica normale, dove è la sera a portare il cibo, il riposo e i contatti, mentre il giorno è assorbito dalle varie forme di lavoro. (p. 159)
La strada è solitudine, emarginazione, sofferenza, ma a colpire il lettore è la profonda dignità di questo tragico antieroe, l’umanità con cui osserva la città e le persone che indifferenti, sospettose, impaurite, gli passano accanto. Londra, fredda e crudele eppure bellissima, che si offre anche ad un vagabondo senza niente come Bogle.
È facile affezionarsi immediatamente a Bogle, immaginarne la sofferenza, provare pena per la sua condizione di emarginato, sconfitto, avvertire il peso della sua solitudine: McLiam Wilson è un abile narratore, la scrittura lirica ed evocativa con cui crea la vita sulla pagina è evidente già in questo esordio folgorante e coraggioso, in cui finzione ed esperienza personale si intrecciano rendendo labile il confine tra l’una e l’altra. Sarebbe stato facile, quindi, raccontare la triste parabola del giovane Bogle, sconfitto dalla vita, finito per strada per colpa del destino, delle circostanze sfavorevoli, dell’Irlanda – a quanto pare è facilissimo imputare ogni colpa all’Irlanda – , della famiglia che l’ha abbandonato, delle donne che non l’hanno amato. Sarebbe stato facile e sicuramente molto più comodo, rassicurante, scrivere una storia di questo genere: ma McLiam Wilson, si è detto, è un abile narratore, che non ha paura di spingersi oltre, sperimentare, e quando ha stregato i suoi lettori avvicinandoli a Bogle e alla sua sofferenza, ecco che stravolge le carte in tavola, rivelando dettagli scomodi, colpe, debolezze, di un personaggio imperfetto, proprio per questo umanissimo. È semplicemente un ragazzo, che ha fatto scelte sbagliate e che più di una volta nel corso della lettura si vorrebbe scuotere e urlargli di smetterla di cacciarsi nei guai e sprecare la propria intelligenza e le opportunità che si presentano.
Come Cambridge, che apre le porte a questo rissoso, disadattato irlandese:
La mia stanza era magnifica. Scura e con pannelli di legno. Con mia insuperata incredulità le finestre si affacciavano sul fiume. Spensi la luce e, seduto, mi misi a guardare il fiume fumandomi una sigaretta. Mentre guardavo fuori gli alberi scuri e l’erba sul fiume nero di notte, non riuscivo a credere a quanto ero felice. Ero io, BOGLE, il barbone, l’uomo da buttare, l’alcolizzato, la ciabatta, colui che scivolava via. Che ci facevo qui?Sedevo in quella stanza scura dell’università, e fumavo pensoso. La mia ascesa nella vita era finalmente iniziata e speranze appassionate iniziarono a formarsi nel mio cuore incerto. (p. 235)
Sappiamo già che le cose a Cambridge non potranno andare bene, possiamo soltanto seguire Bogle nel suo racconto da Belfast alla strada, la sua parabola di successi e fallimenti, eppure per un attimo, un attimo soltanto, McLiam Wilson riesce a farci dimenticare che il presente di Bogle è la strada e immaginare insieme a quel giovane che tutto sia possibile, che forse Cambridge sarà la sua salvezza e il punto di partenza per trovare il suo posto nel mondo. Non sarà così, naturalmente:
Non ci volle molto perché le cose iniziassero ad andare male anche a Cambridge. […] Ho continuato a rischiare. Ho spinto troppo la mia sorte, buttato via la fortuna e mi sono giocato il destino. (p. 292)
Fa un po’ rabbia il buon vecchio Bogle, ma nonostante tutto è impossibile non affezionarsi a lui. Cambridge, un sogno che svanisce in fretta, un’illusione di fronte ad una realtà ancora una volta fatta di solitudine, emarginazione, pregiudizi e ipocrisia.
Poi, si diceva, c’è l’Irlanda in questo romanzo, o meglio, c’è l’essere irlandese, un’identità ingombrante, di cui Bogle farebbe volentieri a meno:
Noi irlandesi siamo degli idioti fottuti. Nessun altro popolo può competere con noi quanto al sentimentalismo insensato in cui ci crogioliamo. Noi e l’Ulster. Quei dannati irlandesi prediletti da Dio, come amano pensare. Come popolo siamo un casino; come nazione una disgrazia; come cultura una noia… individualmente siamo spesso repellenti. (p. 226)
Noi, loro, non ne è certo nemmeno Bogle stesso, è un’eredità troppo scomoda e pesante, il legame con un passato e delle colpe con cui, scopriremo, non è facile venire a patti. È amore ed odio per una patria, un’identità con cui l’autore stesso non può fare a meno di confrontarsi sulla pagina, scegliendo di indagarne anche i lati più scomodi, le zone d’ombra. E, anche in questo primo romanzo, il cielo di Belfast o la Londra notturna di un senzatetto sono evocati da una scrittura lirica, struggente, che a tratti strazia il cuore. Siamo ancora distanti dalla maturità di Eureka Street, ma il talento di McLiam Wilson seppur acerbo, le note più caratteristiche della sua scrittura, le tematiche che più gli stanno a cuore, sono già qui, nel racconto di Ripley Bogle.
Né santi né eroi in questa storia, solo un’umanità tragica, imperfetta, giovani che commettono errori spesso fatali e imperdonabili:
Se ci pensate sono quasi senza colpe: vittima delle circostanze, dell’epoca e della nazione. Colpa dell’Irlanda, non mia. […] Non compiamo misfatti in quanto tali: facciamo errori. Errori orrendi, mortali, dalle conseguenze e implicazioni enormi, ma comunque e soprattutto errori. (p. 381)
Non tocca a noi giudicare, semplicemente addentrarsi in questa storia, godere della bellezza di una prosa egregiamente resa nella traduzione di Enrico Palandri e lasciarsi destabilizzare, mettendo in pericolo ancora una volta il castello di carta delle nostre certezze.
Debora Lambruschini