L'esigenza del silenzio
di Michela Zanarella e Fabio Strinati
Le Mezzelane Casa Editrice, 2018
pp. 152
€ 14,90
La silloge poetica di Michela Zanarella e Fabio Strinati, “L’esigenza
del silenzio”, uscita a febbraio per Le Mezzelane, sembra presentare fin
dal titolo una condizione ossimorica: proclama la necessità di ritrovare il
valore e il senso del silenzio (in un mondo governato dal trambusto: A volte, mi sento come sequestrato/e a
tratti/come ominoso trambusto/dentro questa minuscola vista di trincea, p.
22) e lo fa impegnandosi in una ricerca accurata di parole e suoni. Si tratta,
in realtà, di una poesia da lettura endofasica: non è il rumore delle parole a
declamarne il significato, ma il modo in cui esse echeggiano negli angoli
della mente di chi legge a regalare riflessioni e permettere di compenetrarne
il senso.
Il silenzio mi guarda e mi tocca
Ed io lo lascio entrare nella carne
Come fosse una semina nei campi
In pieno sole.
(…)
Davanti a te
Porto quella voce che mi sfugge dalle labbra
E che non sa dire altro
Che parole arrese e mute (p. 78)
Sebbene il tema preponderante delle poesie di Zanarella e
Strinati sia, appunto, il valore del silenzio, e la sua riscoperta in un’epoca
in cui esso sembra bandito da ogni luogo e momento della giornata, non si
tratta mai di un’apologia sterile, fine a se stessa, ma piuttosto di un portare
alla luce come questa dimensione, dimenticata, trascurata, bistrattata, dell’Io e
del Mondo sia potenziale strumento di riequilibrio di ogni altra condizione e
sentimento umani.
E così attraverso il silenzio è possibile scacciare la
malinconia e l’ombra della depressione:
Ripetimi il silenzio
E la promessa che domani
Non forzerai il cielo
Per farmi dire il colore del dolore
Che ho vissuto (p. 82)
Io che vedo la vita
Come una fila di stanze da riordinare
Alla luce del giorno
E che non conosco altro modo
Per andare nel mondo
Se non quello di appoggiare l’anima
Al silenzio. (p. 48)
Sono fatta di carne e silenzio
Nuvole sciolte e tormento.
Non ti ho mai detto quanto cielo
Vorrei portarmi dentro
Invece in me ha radice la notte. (p. 42)
Anche l’amore si riscopre nel silenzio: in contrasto con gli
amori urlati, social-izzati, colmi di parole svuotate di ancoraggi stabili,
Zanarella e Strinati difendono l’idea dell’amore silenzioso, non rimedio alla
solitudine ma compagno fedele di questa, ineludibile. Solo un amore che non
grida può offrirsi come terapia ai dolori della vita:
Parli ubriaca
Di corteggiamento
Sperando in me che
T’assorbo
Con il solo miope senso
Di una bussola inquieta
Accesa
In un cuore sgretolato e
Spento. (p. 126)
Ripetimi il silenzio
E la promessa che domani
Non forzerai il cielo
Per farmi dire il colore del dolore
Che ho vissuto. (p. 82)
Proviamo a non cadere
E quando il fiato si farà pesante
Diamoci la mano
(…)
Io accudirò i tuoi silenzi
E tu mi confiderai il tempo che hai vissuto. (p. 39)
Porta queste mie mani
A spingere lontano l’ombra di un inganno (…le parole? ndr)
E rivelami con gli occhi
L’esigenza del silenzio. (p. 33)
È soprattutto nel racconto dell’amore, questo sentimento
sublime che domina da protagonista così tanta produzione poetica passata e
presente, che si riconoscono, con naturalezza, le voci dei due autori: sta
proprio qui il fascino della poesia a due voci, nell’individuare il dialogo, e
con esso l’identità distinta dei poeti. La complementarità dei loro pensieri.
La voce di Michela è lettera gentile e profonda al lettore,
confessione, silente dono di sé:
Non credere che io non sappia
L’odore del tuo inchiostro
E il peso di quei fogli che vorresti strappare
Per non cadere ancora
Addosso alle ombre della notte.
(…)
Ci salveremo se vuoi
Sporcandoci l’anima di cielo
E facendo rumore con il silenzio. (p. 27)
Non so nasconderti
Quel dolore che mi ha fatto cadere
E che mi è rimasto ombra nella pelle.
(…)
Ho bisogno di difenderti
Dal buio che ancora prova a vivermi
(…)
E mentre cerco di pulirmi l’anima
Addosso alla notte
So che viene da te
Il colore del mio cielo. (p. 59)
La poesia di Strinati è invece gioiosa e tormentata
celebrazione d’amore, di passione e di vita a due:
Siamo insieme
Fiori d’annaffiare
Lunghe vallate
Interminabili passioni (p. 52)
La tua pelle chiara è come carta
Per poter scrivere i miei versi
E le parole che scrivo e sorseggio,
come l’inchiostro dei tuoi
nei che indossi sul tuo viso
(…)
Sulle tue labbra di burro
Si scioglieranno robusti rami
D’albero e il castagno, donerà
Linfa per l’inverno
Ai miei indiavolati abiti di pelle,
che sanno come vibrare
al tocco della donna maestra
che stravede per la vita. (p. 115)
Il percorso a due che conduce il lettore a riscoprire l’esigenza
esistenziale del silenzio, e a non percepirlo più come pausa di improvviso
fastidio nella quotidianità urlata, trova il suo sincero compimento nelle due
poesie che si incontrano verso la fine di questo libriccino, introdotte da un’anafora
dal sapore religioso, che ammanta di quasi-sacralità la riflessione finale:
Facciamoci il segno
Della croce
Sulla pelle esposta al
Sole
Malgrado una ferita sia
soltanto
Il ricordo di una scelta (p. 138)
Facciamoci il segno della croce
Sul cuore
Ora che sappiamo
Che la vita è una zattera
Che ha bisogno dei nostri sogni
Per parlare ancora di luce
Ai fiori che verranno (p. 139)
È una chiusa, questa, l’ideale compimento e risoluzione di
un viaggio poetico nelle ombre dell’essere umano e nella delicatezza del
sentimento.
Non ci resta che accettare le ferite, le sofferenze, come
parte del nostro viaggio; navigare su una zattera che è, per definizione,
precaria, ma che diventa l’unico appiglio cui far affidamento quando si accetta
di lasciare la terraferma.
Un gioco di metafore che ci conduce alla definizione ex-novo
dei termini fondamentali della nostra realtà: la vita è la zattera a cui ci aggrappiamo (inadeguata, instabile, scomoda…); l’amore, il naufragio che ci costringe
in mare aperto; i sogni, la bussola di questo viaggio periglioso.
E la poesia? La luce che nutre i fiori che verranno.
Barbara Merendoni
(Sulla stessa autrice: qui trovi la recensione e l'intervista di Dario Orphée e qui l'intervista di Barbara Merendoni)