Kobane Calling
di Zerocalcare
Bao Publishing, 2016
pp. 262
€ 20,00
Due viaggi, a distanza di un anno l'uno dall'altro, in terre di conflitto – la Siria, la Turchia e l'Iraq – dove il popolo curdo cerca di fondare una società basata sull'uguaglianza e la giustizia, combattendo ora contro l'Isis, ora invece contro i più subdoli attacchi mossi dal governo turco. Kobane Calling, a metà tra il reportage e la cronaca di un'avventura, racconta l'esperienza dell'autore e il suo progressivo avvicinamento alla causa siriana.
Grazie al suo tratto deciso, al gusto per l'iperbole, agli interlocutori immaginari che continuamente problematizzano e mettono in discussione le sue asserzioni (l'immancabile armadillo, il mammut ritrovato a Rebibbia, il fantomatico George Pig, “fratello petulante della più nota Peppa”), il disegnatore riesce a rendere accessibile la complessità di una situazione molto difficile da comprendere in tutte le sue variabili (scusandosi a più riprese per tutti i politologi, i sociologi e gli esperti di geopolitica che possono essersi suicidati durante la lettura delle sue sintesi lapidarie).
Pur non ambendo a essere esaustivo nella presentazione del conflitto e delle parti in causa, Zerocalcare è abile nel far emergere i moventi economici che aleggiano sulla guerra, nella forma degli scheletri preistorici degli estrattori di petrolio abbandonati (per ora) nel deserto. È molto chiaro anche nel sottolineare i limiti e la parzialità della sua ricerca, che sono però anche una garanzia di onestà intellettuale:
DISCLAIMER [...]. Questo è un diario di viaggio, no un trattato di sociologia. Noi abbiamo beccato questo che era UN turcomanno stronzo. Che non vuol dire che tutti i turcomanni so' stronzi, ci sono quelli che hanno sostenuto Isis, quelli che sono morti combattendolo, e quelli che si sono fatti gli affari loro. Le generalizzazioni e gli schieramenti su base etnica so' tutte cazzate bone per i talkshow strilloni. Stop. (p. 179)
L'opera convince soprattutto perché, come appare evidente fin dall'inizio, Zerocalcare non è un santo: è sboccato, spesso politicamente scorretto, un po' nerd (dal che i succosissimi riferimenti a Ken il Guerriero, Star Wars, e una lunga sequela di modelli culturali fondanti per la generazione nata negli anni ’80); ha una mamma chioccia molto preoccupata per le apparenze, la sicurezza stradale e probabilmente le magliette della salute, vive dei suoi "disegnetti" ed è un convinto sostenitore della teoria di "Rebibbia caput mundi". Insomma, Zerocalcare è uno di noi. Uno di noi che si è appassionato a una causa e ha deciso di fare, concretamente, qualcosa per supportarla. Si è messo in gioco in prima persona, portandosi dietro tutte le inquietudini dell'uomo comune, tanto che nelle notti senza luce di Mehser i combattenti dell'Isis vengono dipinti come samurai incappucciati, "uomini neri" che emergono dalle tenebre come mostri da sotto il letto; e questo risulta comunque più facile da accettare rispetto alle lenticchie proposte continuamente a colazione.
Il suo obiettivo non è fare moralismo spiccio o facile propaganda (sono molti i nodi irrisolti che vengono apertamente sollevati dal testo); c'è però un'idea semplice e limpida, che viene portata avanti attraverso le immagini: "qui stanno facendo una cosa che in questo momento per me è tipo un faro per l'umanità. Che va aiutata, difesa, sostenuta. Perché se perdono loro, perdono tutti". Assecondando questa idea, e senza voler necessariamente essere eroe, ognuno può trarre dall'esperienza un modello valido per la propria vita: "Questi c'hanno un metodo. Una tensione a migliorare, che poi ognuno dovrebbe declinare dentro se stesso e nel suo contesto" (p. 245).
Il suo sguardo dissacrante aiuta a stemperare la drammaticità insita in una situazione irrisolta e che continua a versare sangue innocente. Ci si trova così a ridere più volte, senza dimenticare mai comunque il fondo profondamente serio del discorso. A Calcare si pongono diversi problemi logistici e narrativi: le traduzioni, gli inquadramenti geografici, la resa degli ambienti:
Adesso, io vorrei davvero condividere l’entusiasmo di Ezel mentre ci rechiamo a Qamishlo. Per lei stiamo tipo attraversando un paesaggio stupendo. […] Ma che ti devo rispondere io qua? Erba gialla. Erba bruciata. Terra. Sassi. […] È ovvio che se io ero Gipi e sapevo fare gli acquarelli, ‘sti paesaggi potevano venire una bomba. Tutto ‘sto giallo, ‘sti spazi ampi. […] Invece disegno coi pennarelli. (p. 120)
In particolare però c’è la difficoltà di dover raccontare di movimenti clandestini, i dettagli relativi ai quali devono necessariamente restare segreti.
Tutte le difficoltà vengono fronteggiate con buon senso e grande ironia. Così, ad esempio, gli infiltrati del PKK a Erbil (il PKK è il “Partito dei lavoratori del Kurdistan”, considerato dalla comunità internazionale alla stregua di un gruppo terroristico) vengono rappresentati come "una fetta di formaggio caprino e delle olive piccanti, gloriosi simboli dell'identità curda e di come i curdi non sanno fa' colazione" (p. 87).
Il sottotitolo del graphic novel è poi, non a caso, "facce, parole e scarabocchi da Rebibbia al confine turco siriano": infatti, più degli scarabocchi e delle parole contano le facce, quelle di uomini e donne che lottano fianco a fianco per la propria libertà e il proprio diritto alla vita. Alla narrazione vengono alternati alcune brevi schede biografiche, necessarie perché
in Kurdistan c'è questa cosa strana. Pure quello che pare il ragionier Filini, che non gli daresti mai una lira, che s'accolla con le lenticchie come mi' nonna... c'ha una vita che Diehard-Duriamorire je spiccia casa. E ti fa sempre sentire lo scemo del villaggio. (p. 105)
L'uomo comune si confronta continuamente con altri uomini comuni costretti dalla necessità e dagli eventi a essere straordinari, e questo accende in lui il desiderio di essere all'altezza. Una di queste facce è quella di Ayse, soprannominata "Cappuccio rosso", nata 1993 e arruolata nel PKK per sfuggire a una condanna di novantotto anni inflittale dal governo turco per aver manifestato a Gezi Park. Ayse moriva in combattimento poco dopo la pubblicazione di Kobane Calling, e Zerocalcare la ricorda con parole toccanti sul suo profilo personale:
È sempre antipatico puntare i riflettori su una persona specifica, in una guerra dove la gente muore ogni giorno e non se la incula nessuno. Però siccome siamo fatti che se incontriamo qualcuno poi per forza di cose ce lo ricordiamo e quel lutto sembra toccarci più da vicino, a morire sul fronte di Raqqa contro i miliziani di Daesh è stata Ayse Deniz Karacagil, la ragazza soprannominata Cappuccio Rosso.
Lei, del resto, è solo uno dei volti che emergono dalla narrazione e che il lettore può portare con sé, come quello della comandante Nasrin, responsabile delle unità di protezione delle donne del Rojava (YPJ), o di Berzan, caduto durante la stesura del libro. Questi volti diventano, nell’ottica di Zerocalcare che il lettore immediatamente accoglie e fa propria, un monito, un appello alla coscienza, che deve sopravvivere all’ultima pagina:
Oggi Kobane è un museo a cielo aperto della vergogna dell'umanità. Di cosa è stato lasciato accadere. Non vogliamo ripulire tutto solo perché il mondo possa tornare a far finta di niente. (p. 184)
Carolina Pernigo