di Alessandro Cinquegrani
Mimesis, 2018
pp. 119
€ 12,00
Può apparire scontato che una ricerca sul nazismo inizi con Primo Levi, ma questo breve volume, che non deve ingannare il lettore con l’illusione della facilità, scontato proprio non è. È un Levi meno conosciuto, quello da cui il ragionamento prende l’avvio: il Levi che sta già ricercando “la natura ontologica che sta alla base del nazismo, più che le sue manifestazioni ontiche” (p. 18), il Levi che mette da parte la memorialistica per cercare altre forme espressive; il Levi quindi di un racconto, “La bestia nel tempio”, pubblicato per la prima volta nel 1977.
La prima delle sei immagini proposte dal titolo è proprio quella di una bestia feroce, prigioniera di una gabbia ineludibile: è la violenza dell'uomo, che si scontra continuamente con una presunta razionalità elevata a sistema e poi ripiegata su se stessa, che vorrebbe negare ciò che è oscuro, tenerlo segregato per l’eternità fino a dimenticarsene. Solo la morte della bestia, incarnazione del male e forse della colpa, potrebbe risanare il mondo, ma la bestia non morirà mai, non riuscirà mai a fuoriuscire dal recinto astratto in cui è stata reclusa. È questo, secondo Cinquegrani, uno dei paradossi del nazismo che, almeno nelle sue rivisitazioni artistiche e letterarie, sembra manifestarsi nella celebrazione di una “razionalità essiccata”, una “logica senza intelligenza” (p. 23), poiché l’intelligenza richiede coraggio e fantasia, ma soprattutto opposta al sentimento.
Il presupposto del testo è che sempre più spesso, parlando di nazismo, non ci si riferisce alla sua connotazione storica, (“una enorme, assoluta, inconcepibile abiezione”, p. 9), ma ad un archetipo, un mito che dalla rielaborazione della storia è scaturito, e con cui è impossibile non fare i conti. Questo archetipo affonda profondamente le radici nella letteratura, nel cinema, nell’universo dei consumi (tanto che si può parlare di “pop shoah”), dando vita a una serie di immagini-emblema che ricorrono, diversamente declinate, a denunciare un’ampia gamma di significati. È attraverso una selezione di queste immagini (sei, come anticipato, che si aprono però a ventaglio in numerose digressioni e varianti) che Cinquegrani ci vuole accompagnare, lasciando che siano loro a parlare, a rivelare un importante condizionamento dell’immaginario popolare. E se la prima tra queste, tramite la coesistenza di due elementi opposti e inconciliabili – la ragione condotta all’estremo e la violenza barbara a stento trattenuta – anticipa la ricerca che verrà portata avanti nell’intero volume, la metafora dominante è quella suggerita da Jonathan Littel ne Il secco e l’umido (ancor più che ne Le benevole, che della sua teoria appare la massima esemplificazione narrativa). Secco è infatti tutto ciò che concerne la ragione, la freddezza, il calcolo, la legge, quello che Jung definiva il tipo pensiero estroverso; l’umido è la passione, l’abbandono, la carnalità, il perturbante, il tipo sentimento. Il nazista coincide con la prima categoria, con un tentativo costante di impedire che qualsiasi cosa sfiori o scalfisca il suo Io-Corazza. Quali siano le implicazioni di questa divaricazione, e come il “nazista” si mimetizzi nella contemporaneità, diventando sembra più simile all’uomo comune, è l’oggetto di studio del saggio.
Il sacrificio di Bess è una marcia a tappe forzate attraverso un testo densissimo e stringente, non alla portata di tutti. Una volta preso il ritmo, ti obbliga a tenere il passo, sospeso in uno stato di incertezza fino ad ogni punto di snodo, ad ogni connessione logica, quando si può riprendere fiato e il senso di ciò che è venuto prima viene finalmente svelato, i tasselli del puzzle iniziano a trovare la loro collocazione. L’autore si rivela abile burattinaio, che muove i fili in una danza perfetta, forzando il lettore all’attenzione: guai a chi non sia allenato, a chi pensi di potere impunemente saltare una riga, scorrere velocemente una citazione. Perdere il capo del filo significa trovarsi a vagare nel labirinto, il Minotauro che ringhia dietro l’angolo.
Il titolo dell’opera fa riferimento a un film di Lars Von Trier, Breaking the Waves (Le onde del destino, 1996), che attraverso il comportamento della protagonista suggerisce una possibile – per quanto illogica, insensata, drammatica – soluzione all’impasse in cui la società contemporanea rischia di trovarsi. Il regista danese mette infatti in scena un “conflitto, privo di mediazioni, che vede la vittoria del sentimento sugli schematismi del pensiero”. Questa vittoria non è possibile con un modesto sbilanciamento, ma con un abbandono totale e innaturale, con il sacrificio assoluto di sé. Commenta Cinquegrani, per riportare la proposta operativa ad una dimensione di fattibilità:
Il sacrificio di Bess non è la via, non si può organizzare la propria vita nella direzione esclusiva del sentimento cieco e irrazionale, ma con il sacrificio di Bess e necessario fare i conti, sapere che esiste, per un attimo sublime almeno, abbracciarlo senza riserve. (p. 115)
Una società come la nostra (e come quella inseguita dal nazismo) che aspiri alla perfezione, ad una purezza sterile e fine a se stessa, è destinata a deflagrare, a dare vita a fondamentalismi scaturiti dal proprio rimosso. Perciò, conclude Cinquegrani alla fine di un percorso che lascia tanto spossati quanto appagati, è doveroso "fa[re] i conti con l'Ombra umida del proprio aldilà inconscio, col proprio sentimento"; e ancora, e forse definitivamente:
è necessario il sacrificio di Bess, al di fuori della perfezione della nostra società, delle architetture logiche (e prive di intelligenza) nelle quali siamo ospitati. [...] Allora il dominio del pensiero allenta la sua morsa, allora possiamo ritornare a dirci umani. (p. 115)
Carolina Pernigo