Cinquant’anni fa moriva a Cervia Giovannino Guareschi, scrittore umorista tra i più brillanti quanto opinionista caustico e aggressivo. Due estremi che sono lo specchio della sua personalità divisa tra una coerenza al limite della testardaggine e la sua generosa vocazione artistica. Per capire il carattere di questo autore basterà ripensare solo alla sua detenzione nei campi nazisti per prigionieri militari: per superare i disagi, il freddo e la noia decise di creare un giornalino parlato per i suoi compagni internati. Pur tra le morti e la fame Guareschi non smette di usare l’umorismo e la parola come arma di sopravvivenza, anche ripetendo a tutti “non muoio neanche se mi ammazzano!”. Un’esperienza – per chi fosse curioso – che viene riportata nel Diario clandestino (1943-1945).
Se la saga di Don Camillo e Peppone è un long seller che non ha bisogno di presentazioni, è invece un peccato che si siano dimenticati due romanzi davvero gustosi del Guareschi senza baffi, cioè quello pre-bellico: Il destino si chiama Clotilde e Il marito in collegio. Forse le prove migliori del Guareschi umorista: due libri adatti a dei lettori che cercano uno svago intelligente e leggero.
Il primo è un romanzo di avventure, picaresco, che prende in giro i romanzi a puntate delle riviste. Il protagonista, Filimario Dublé, coerente patologico, viene rapito da Clotilde Troll, ricca ereditiera che lo vuole cacciare dalla sua città. I contrasti, le trovate e gli incidenti sono tra i più vari e divertenti e, per capire già da subito il tono, basterebbe leggere i primi due capitoli dell’opera.
Il marito in collegio è un romanzo d’amore ottocentesco a parti invertite: nel senso che il ruolo che tradizionalmente era ricoperto da un uomo è impersonato da una donna e viceversa. Infatti, la giovane Carlotta Wonder-Madellis calcola la sua politica matrimoniale in maniera fredda e distaccata; mentre Camillo Debrai è innamorato e ingenuo, e viene spesso raggirato. L’opera è piena di colpi di scena, gag e battute salaci che fanno sorridere e passare ore di vero piacere.
Guareschi ha anche un altro aspetto, adatto a chi cerca dei libri che uniscano riso e tenerezza: il filone familiare. L’autore ha avuto, lungo tutta la sua carriera, la necessità e il gusto di raccontare e rifugiarsi nel suo nido domestico descritto con dolcezza e ironia. Si pensi solo che sia l’opera di esordio, La scoperta di Milano, sia una delle ultime, Corrierino delle famiglie, sono ambientate in questa dimensione intima. L’esordio è un romanzo a episodi che racconta i primi passi dell’amore tra lo scrittore e la moglie e il loro trasferimento dalla campagna alla grande città; il secondo libro è una raccolta di piccoli episodi domestici tra il divertito e l’ammirato.
Giovannino Guareschi ha però un lato pieno di ombre, quello da opinionista. Molto di ciò che ha scritto nel suo «Candido», infatti, risulta datato e spesso anche eccessivo: troppo conservatore e corrosivo. Eppure alcune intuizioni sono ancora efficaci perché colpiscono tratti umani costanti. Si pensi solo all’idea dei “trinariciuti”, uomini dotati di tre narici, di cui una appositamente creata per inserire il pensiero del partito fin su nelle meningi: persone ottuse e cieche davanti alle contraddizioni, pronte a cambiare opinione e oggetto di polemica a comando. Un ritratto che riporta alla mente le tifoserie politiche che infestano i social, incapaci di ragionare su ciò che leggono e di cogliere le menzogne.
Lo scrittore morto cinquant’anni fa, è stato purtroppo oggetto di grosse strumentalizzazioni politiche, soprattutto per le sue esternazioni espresse nel «Candido». Opinioni che gli son valse condanne penali e galera, esaltazioni politiche e marginalità critica. Eppure, dopo così tanti anni, varrebbe la pena superare proprio quell’ambito così spinoso, e riscoprire uno scrittore dallo spirito acuto e dal grande talento.
Gabriele Tanda