di Hannah Tinti
Nutrimenti, 2018
pp. 448
€ 20
Cosa sa Loo della madre Lily, di cui non conserva alcun ricordo se non quei pochi oggetti personali – delle polaroid ingiallite, flaconcini di bagnoschiuma, un accappatoio – che, come feticci religiosi, il padre appende in bagno ogni volta che i due si trasferiscono in una nuova città? Cosa può sapere Loo, diminutivo di Louise, di quella donna che il padre ama ancora dopo tanti anni dalla sua scomparsa, e intorno alla cui morte sembra aleggiare un mistero insondabile?
Sa che è vissuta, certamente; che da qualche parte, in qualche tempo, loro due hanno condiviso lo stesso spazio vitale, e sa che oggi non c'è più; eppure, dopo tante ricerche infruttuose attraverso i silenzi del padre,
adesso sapeva anche qualcos’altro, qualcosa in più di quelle vecchie foto, ritagli e parole infestate da fantasmi. Sapeva che sua madre si tuffava dagli argini. Che era abbastanza forte da nuotare in mezzo alle navi in manovra. Che portava i guanti e si rotolava nelle alghe e anche lei aveva un padre. Che era cresciuta in una casa piena di colore. E che aveva vissuto una vita intera prima di conoscere Sam Hawley.
Le dodici vite di Samuel Hawley, al di là delle meccaniche e delle ambientazioni post western, degli elementi thriller e delle tracce noir, è un romanzo di formazione che coinvolge i due protagonisti, Samuel Hawley e sua figlia Loo, e li segue nei loro iniziali spostamenti randagi fino allo stanziamento definitivo a Olympus, Massachusetts. Il loro rapporto quasi simbiotico viene mostrato sin dalle prime pagine, ed è proprio sulla base di questo stretto legame che si sviluppano, soprattutto nelle fasi avanzate del romanzo, le tematiche tipiche del romanzo di formazione, ossia la ricerca dell’identità individuale, la ribellione alla figura genitoriale, la necessità di trovare un proprio posto nel mondo.
Ed è sempre questo rapporto di interdipendenza che impedisce, almeno inizialmente, a Loo di creare altri legami stabili: all’arrivo a Olympus, infatti, lei è subito etichettata come la freak, l’asociale, l’esterna. Da lettori seguiamo dunque con vivo interesse l’avvicendarsi di eventi che vedono lo sviluppo della personalità acerba di una ragazzina che si fa donna pagina dopo pagina, che impara a ridere e soffrire per amore, che è costretta a lasciar andare parte di sé per salvare se stessa e qualcun altro.
Diventare donna, dunque, donna come sua madre: una figura che, fisicamente presente in pochissime pagine e co-protagonista solo verso la fine, è tuttavia imponente e a tratti ingombrante, quasi maestosa. Lily, pur assente, è rinvenibile in ogni gesto e rituale di Hawley, in ogni parola e atteggiamento di Loo, in quell’obiettivo sacro di salvaguardia della prole che l’uomo persegue a tutti i costi. L'identificazione fra Lily e Loo è globalizzante, e questo è decisamente un motivo per prendere la propria strada, così come necessario diviene a un certo punto smettere di vivere nel passato.
La vita di Hawley, mostrata in parallelo a quella di Loo tramite l’espediente classico ma sempre funzionante dei capitoli alternati, può essere dopo tutto suddivisa in due perfette metà: prima di Lily e dopo di Lily. Arriva un momento infatti in cui l’uomo, il criminale scapestrato e pronto a ogni rischio, comprende come sia necessario essere attento alla propria vita per salvare quella di qualcun altro. E allora tutto cambia e d’improvviso escono fuori sentimenti nuovi come la paura e il desiderio: e se questo vale per la donna che si ama, ancor più forte e trascinante è quel sentimento diretto al frutto di questo amore, ossia Loo.
Le dodici vite di Samuel Hawley è un romanzo da cui ci si stacca con estrema difficoltà, sia per le capacità narrative dell’autrice (che, in inciso, sa usare con grande maestria la tecnica della suspense e del cliffhanger), sia per l’approfondimento psicologico dei personaggi, ai quali ci si affeziona e per la cui vita si teme a ogni pagina. Su buona parte del libro aleggia, come si è detto, la figura di Lily, di cui si conosce sin dall’inizio la sorte infausta: ma è la volontà di risolvere il mistero dietro la sua morte, combinata alla curiosità di scoprire cosa ne sarà di Sam e Loo, a spingere sull’acceleratore.
Ultima nota: intorno alla metà del libro, complice la titolazione dei capitoli dedicati a Sam Hawley (“Primo proiettile”, “Secondo proiettile” e così via fino al dodicesimo e ultimo), è inevitabile iniziare a fare congetture sul finale. E ho temuto sinceramente che questo finale potesse essere deludente. Ma così non è stato, per fortuna.
David Valentini
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