Il "Manifesto per gli animali" di Melanie Joy: essere consapevoli per poter scegliere liberamente

Manifesto per gli animali
di Melanie Joy
Laterza, 2018
(Collana "I Robinson/Letture")

pp. 64
€ 7.00


Colpisce positivitamente la scelta, da parte dell'editore Laterza, di dare alle stampe questo breve Manifesto per gli animali, firmato da Melanie Joy, docente di Psicologia e Sociologia alla University of Massachussets e fondatrice dell'associazione Beyond Carnism. Il libretto, con la sua accattivante veste da pamphlet (la sovraccoperta in cartoncino, aperta, si trasforma in vero e proprio manifesto, recante al suo interno il messaggio «Senza consapevolezza non c'è libera scelta») e la postfazione di Leonardo Caffo, si inserisce in un dibattito quantomai attuale che vede una parte sempre più ampia dei consumatori prendere coscienza della sofferenza patita dagli animali tra le mura degli allevamenti e virare verso un'alimentazione vegetariana o vegana. Uno scritto che assume rilevanza ancora maggiore all'indomani della polemica scaturita dalla decisione da parte del partito conservatore inglese di rifiutare l'emendamento previsto dal Trattato di Lisbona secondo cui gli animali costituiscono (in conformità peraltro con quanto dimostrato da studi etologici nemmeno troppo recenti) forme di vita senzienti: un atteggiamento, quello governativo, non solo antieuropeista ma profondamente anacronistico.

L'obiettivo del testo della Joy è mostrare al lettore, sinteticamente e con chiarezza, quanto la cultura carnivora, come qualsiasi altra cultura dominante, si nutra di conformismo e obbedienza (quest'ultima cammuffata dalla libera scelta di attenersi alla posizione dei più, quella che  esprimerebbe maggior buon senso e che dunque è in grado di mantenerci "più al sicuro" dal punto di vista sociale) e si basi sulla totale immersione dell'individuo all'interno di taluni valori considerati normali, naturali e necessari:
Mangiamo animali perché «così stanno le cose». Anzi, semmai, veniamo scoraggiati dal riflettere sulle nostre scelte alimentari: spesso i bambini si angosciano quando associano la carne che stanno mangiando alla morte di un animale e gli adulti devono persuaderli nuovamente alla cieca accettazione del carnismo.
Un sistema di valori così largamente diffuso e interiorizzato da rendere difficilmente percepibili i condizionamenti subiti e che peraltro, nonostante i macroscopici paradossi che lo turbano, per esempio quello per cui «Amiamo i cani e mangiamo i maiali, ma non sappiamo perché», basa la propria efficacia sulla negazione e su un'ossessiva giustificazione. Ovvero, poiché molti di noi sarebbero naturalmente portati a provare empatia verso gli animali e a non desiderarne le atrocità subite, quella sofferenza e l'animale stesso vengono resi “invisibili”: la privazione del diritto di essere è la prima a cui va incontro il corpo animale, smembrato ontologicamente prima ancora che fisicamente, ridotto a mero produttore o prodotto, vittima del paradosso dell'esser nato per morire e la cui (breve) vita si svolge, spesso all'interno di gabbie così piccole da non consentirgli nemmeno di muoversi, al riparo dagli occhi dei più.

«Lontano dagli occhi, lontano dal cuore» è la chiave alla base del commercio dei prodotti carnei, la ricetta perfetta per far superare il naturale disagio morale provocato da una maggiore consapevolezza di ciò che avviene negli allevamenti.
Se non vediamo il sistema, se non diamo un nome al problema, esso semplicemente smetterà di esistere: mangiare animali diverrà qualcosa di scontato, di ovvio, incontestabile. Non è un caso che l'autrice paragoni la cultura carnivora a una delle più note metafore di cultura dominante, quella del film Matrix: nonostante in una sola settimana il numero degli animali da allevamento uccisi superi quello delle vittime di tutte le guerre della storia dell'umanità, nonostante parte dei loro corpi siano ovunque intorno a noi e sebbene l'informazione riguardo al deplorevole trattamento a cui sono sottoposti i cosidetti animali “da reddito” sia ora più facilmente reperibile, è più semplice innescare meccanismi di rimozione o di volontaria disinformazione, pensare che far nascere e poi uccidere animali “in serie” sia in qualche modo uno dei frutti dell'evoluzione e che non ci si possa far niente. Oppure, una comoda scorciatoia è presto definita: quella dell'"allevamento etico", di alimenti carnei prodotti con metodi compassionevoli per quanto, come ci fa notare la Joy, «per la maggior parte di noi sarebbe una vera crudeltà ammazzare un golden retriever sano e felice soltanto perché alla gente piace il sapore delle sue zampe, eppure quando la stessa cosa viene fatta a individui di altre specie siamo sollecitati a considerarla una gentilezza».

Ma allora  perché  lo facciamo?
Per adesione alle norme sociali, perché adeguarci a esse è meno rischioso, ci rende "normali". Perché lo consideriamo naturale e necessario, per quanto «le popolazioni che dal punto di vista geografico o economico sono in grado di fare scelte alimentari libere» non abbiano bisogno «di mangiare animali per sopravvivere o mantenersi in salute».
Ma discostarsi dalla prospettiva imposta significa anche prendere respiro, provare a porre una distanza tra il sé e una visione esclusivamente antropocentrica, avvicinarsi a una posizione antispecista. Muoversi verso nuovi punti di vista e indugiare con lo sguardo su noi stessi e sul reale. Staccarsi dalla macchina che ci impone una visione preconfezionata, legata a una concezione dell'"altro da sé" che ha i suoi fini e le sue ragioni nel mantenere elevata la domanda di certi beni a prescindere da qualsiasi scrupolo o interrogativo di tipo etico, che riduce l'animale a semplice "cosa", non più vivente, non più individuo e tantomeno senziente ma, come ci avverte Caffo nella sua interessante postfazione, numero fra i numeri.
Ed è proprio Caffo che, richiamandosi a Derrida e Agamben, ci parla dell'animalismo come movimento e pensiero che non mira a liberare gli animali «quanto, perlopiù, l'animalità: ovvero la proprietà con cui si impone a un corpo la sua sacrificabilità». Stimolare l'empatia nei confronti delle  specie altre significa riconoscere il diritto alla vita e alla felicità di coloro che consideriamo differenti da noi, da ciò che siamo o che intendiamo essere, lontani dallo stile di vita e dal modello culturale in cui ci riconosciamo e dietro ai quali troppo spesso ci barrichiamo.
Per cui Caffo ci mette in guardia:
[...] animale, e qui si vede il debito dell'animalismo con il pensiero più teorico, con Derrida e Agamben, è qualsiasi corpo che venga ridotto alla sua funzione biologica e non specializzata: il migrante, lo schiavo, il tassello di carne che si fa mero ingranaggio. Derrida chiama la parola "animale" un compressore ontologico della differenza (chi è l'animale? Non sono molteplici, plurali, forse infiniti?) mentre Agamben, appunto, la chiama la «macchina antropologica»: un'entità entra in un modo e ne esce in un altro; se l'output è "l'animale" ne segue l'inferno della vita. 
Ecco perché dobbiamo pensare l'animalismo come «umanesimo dilatato» ed è forse questo il senso più alto di Manifesto per gli animali: raccontarci come sia possibile spiare sotto la maschera della retorica da “vecchia fattoria” – spacciata da messaggi pubblicitari allo scopo di allontanare il consumatore dalla realtà – e individuare i paradossi e le criticità del carnismo per poter decidere più liberamente se ciò che facciamo è frutto di una nostra libera e consapevole scelta oppure della paura di andare contro corrente e allontanarci così da quel cammino tracciato per noi da altri. Soprattutto, il manifesto della Joy suscita interrogativi in chi legge e, a prescindere da quale sia l'approccio con cui ci si accosta a esso, questa dovrebbe essere una valida ragione per considerarlo prezioso. Manifesto filosofico, sì, che però rintraccia i propri illustri antecedenti tra coloro (come è ancora Caffo a  sottolineare) che del proprio pensiero hanno fatto il fertile terreno su cui sviluppare l'agire quotidiano, da Socrate sino a Thoreau e Wittgenstein.

Al di là delle mode – che pure esistono – una nuova coscienza si sta risvegliando in una fetta sempre più vasta della popolazione ed è quella, eminentemente creativa, tesa a costruire un altro rapporto col mondo, con l'animalità, con l'alterità, un orientamento che ha come obiettivo l'abbandono di una visione rigidamente antropocentrica, una visione filosofica e concettuale inscindibile dalle proprie dimensioni politica e pragmatica.
Leggere per credere.


Nike Gagliardi